Il declino dei formati fisici per l’ascolto di musica – fatta eccezione per il vinile, cresciuto del 1.427% dal 2007 a oggi – è stato visto con un certo entusiasmo dai sostenitori di un mercato dell’intrattenimento più amico dell’ambiente. D’altronde, la riduzione nella richiesta di CD e DVD ha portato anche a un calo di emissioni correlate alla produzione di questi formati, così come alla domanda di materiali plastici. Eppure le alternative digitali non appaiono così green come sembrano: secondo un recente report di BBC, anche la musica in streaming inquina.
In un lungo intervento apparso sul sito ufficiale dell’emittente britannica, ripreso da The Conversation e scritto da Sharon George e Deirdre McKay della Keele University, si confronta l’impatto ambientale di diversi formati musicali, giungendo a risultati a dir poco sorprendenti. Per quanto la percezione possa suggerire un maggior inquinamento dovuto alla produzione di dischi e CD, poiché realizzati in materiali plastici, nel lungo periodo la loro performance è migliore ai formati dematerializzati. Questo perché digital delivery e streaming hanno dei costi in termini di consumi ed emissioni che non sono immediatamente riconoscibili dal consumatore finale.
Senza entrare troppo nel dettaglio, l’intervento spiega come un vinile moderno contenga all’incirca 135 grammi di PVC, con un carbon footprint per la produzione di circa 0.5 kg di anidride carbonica. La sola produzione di 4.1 milioni di dischi – quanto se ne vendono oggi nel Regno Unito in un anno – equivale a 1.9 tonnellate di anidride carbonica, ovvero l’impatto ambientale prodotto da 400 persone in 12 mesi. Il peso della fabbricazione di CD sull’ambiente è invece inferiore per singolo disco, poiché si utilizza una speciale fibra in policarbonato mescolata con l’alluminio, riducendo così l’emissione di anidride carbonica di 0.1-0.3 kg rispetto ai vinili. Tuttavia, mentre i 33 e i 45 giri risultano completamente riciclabili poiché il PVC può essere facilmente rimesso in circolo, per CD e DVD l’operazione è molto più complessa, poiché si tratta di un mix di materiali diversi.
Calcolare l’impatto ambientale dello streaming è più difficile, ma vi è certamente un dato di fatto: non essendo necessaria la produzione di un supporto fisico in numerose copie, si elimina questa fonte di emissione di CO2. Tuttavia, i file digitali devono essere ospitati su server in estesi data center, i quali producono sia calore che anidride carbonica, oltre che consumare energia 24 ore su 24. Nella maggior parte dei casi, questo impatto viene calmierato con il ricorso a energie al 100% rinnovabili, nonché con progetti di riforestazione per il recupero della CO2, quando presenti.
Nonostante lo streaming abbia un carbon footprint più basso in fase di “produzione” rispetto agli altri formati – sebbene sia molto difficile calcolarlo nel dettaglio – è però più avido di energia sul fronte dei consumi. L’ascolto di un vinile o di un CD comporta un consumo medio di 34.7 chilowattora all’anno. Un servizio di streaming collegato al proprio impianto di riproduzione domestico, e ovviamente ai device che garantiscono la connessione alla rete, determina invece un consumo medio di 107 chilowattora all’anno. Date queste evidenze, le esperte suggeriscono come l’ascolto saltuario di brani sia decisamente più environmental-friendly in streaming, mentre la fruizione continuativa – come la riproduzione di un intero album, anche più volte consecutive – è più verde su formato fisico.