La scorsa settimana, come probabilmente molti di coloro che stanno leggendo queste righe, ho finalmente ricevuto la mia unità di SNES Mini, dopo mesi di attesa. Immediata la scissione tra l’io giocatore e l’io addetto ai lavori. Uno ancor prima di aprire la scatola ripercorreva con la mente tutti i ricordi connessi a un’epoca che non c’è più, quando gli sprite dei giochi 16-bit scorrevano veloci su vecchi televisori a tubo catodico, accompagnando interi pomeriggi trascorsi in solitaria o dividendo il secondo joypad con un amico. L’altro invece sentiva la responsabilità di dover provare e giudicare quello che è a tutti gli effetti un prodotto datato 2017, per scriverne un giudizio professionale e per quanto possibile distaccato.
Perché?
Da luglio ad oggi mi sono trovato a parlare di SNES Mini più volte, anche offline e non per lavoro. La domanda che diverse persone mi hanno posto è: “Perché spendere 80 euro per giochi di quasi vent’anni fa, quando ci sono gli smartphone e gli emulatori?”. Mettiamo da parte la questione legale (è necessario possedere una copia originale del titolo per utilizzarne la ROM) e focalizziamo l’attenzione su quel perché, trasformatosi in input per la stesura di questo articolo. Il dubbio è legittimo, il quesito giustificato.
A cosa si deve l’esplosione della retrogaming mania? Nella scorsa stagione abbiamo visto NES Mini andare a ruba, con grande sorpresa della stessa azienda nipponica, quest’anno la storia si è ripetuta con la riedizione in miniatura del successore a 16-bit, ancora disponibile all’acquisto solo grazie a un notevole incremento nei ritmi di produzione. A breve arriveranno anche la riproposizione in chiave moderna dell’Atari 2600 e quella del Commodore 64. Cosa sta succedendo?
Restando in casa Nintendo e senza scomodare la concorrenza, nel 2040 giocheremo con Switch Mini? Oppure il fenomeno è destinato a sgonfiarsi una volta andato fisiologicamente esaurendosi l’effetto nostalgia di una generazione che ha conosciuto il mondo videoludico tra gli anni ’80 e gli anni ’90? Anche in questo caso, il dubbio è legittimo, il quesito giustificato. Nel primo caso potremmo parlare di una qualche sorta di legge non scritta che restituisce fascino a una piattaforma dopo l’inevitabile periodo di oblio che ne segue il termine del ciclo vitale. Nel secondo si arriverebbe invece ad affermare che non tutte le ere videoludiche sono ugualmente capaci di lasciare un segno indelebile.
Dopotutto, nulla è eterno, nemmeno la console war così come per decenni l’abbiamo conosciuta. Sarebbe interessante indagare l’età media di chi compra la riedizione di una vecchia console e testare la reazione che quest’ultima suscita in coloro che per ragioni prettamente anagrafiche non hanno avuto modo di viverne l’esperienza originale.
Forse…
Forse qualcosa è cambiato davvero. Forse il valore che attribuivamo tempo fa ai giochi era diverso. Il loro peso specifico differente, determinato da un’offerta tutto sommato limitata, almeno se la si confronta con quella odierna. Ieri una cartuccia, un titolo. Oggi una microSD, migliaia di titoli. Meglio prima? Meglio ora? Probabilmente, né una cosa né l’altra, poiché la diversità stessa è frutto dell’evoluzione, anche quando si tratta della scala di giudizio impiegata per misurare le sensazioni.
Forse ad essere cambiati siamo noi, anche se ci costa ammetterlo. E se tornare a vestire i panni che il buon Link indossava nello Zelda del ’91 ci emoziona più di quanto faccia il suo lontano successore del 2017 è solo perché siamo diventati impermeabili alle novità, irrecuperabili nostalgici legati a un’epoca che non c’è più, a ricordi che sono solo nostri. Però, non so voi, ma io a conti fatti forse Zelda nel 2040 non lo vorrò più giocare.