La settimana scorsa a Villabate, in provincia di Palermo, quattro ragazzi hanno confessato di aver compiuto diversi atti vandalici all’interno di aule e stanze di una succursale del liceo Danilo Dolci. Fin qui, tutto normale, nell’ordinaria follia di un individuo nel pieno del suo sviluppo ormonale, che magari non sa come sfogarsi in maniera meno violenta. Sta di fatto che questi simpatici mascalzoni si sono rifatti a Fortnite per compiere le loro marachelle.
Lo hanno detto alla polizia intervenuta e lo si vedeva, per chi conosce il videogame, dal modo di essere travestiti e camuffati, con scaldacollo, bandane e giubbottini a bomber. Quindi basta avere come punto di riferimento Enzo Braschi in qualità di “Paninaro” per essere etichettati come fan di Fortnite.
Ma il problema non è questo o almeno lo è solo in apparenza. Si, perché se la dirigente dell’istituto ha spiegato che quanto successo deve rappresentare un campanello d’allarme per le famiglie, circa la pericolosità di certi videogiochi, in realtà almeno due dei quattro erano stati già sorpresi, in passato, a vandalizzare la scuola, per ben quattro volte (lo dice Repubblica). Non sapendo a quando risalgono i precedenti episodi, non possiamo di certo affermare che siano legati al “fenomeno” Fortnite ma sicuramente la stampa lo avrebbe ripreso prima, in tal caso. Ecco cosa scrive TGCom in merito:
C’era solo la voglia di imitare quei personaggi del videogioco. I genitori, convocati in caserma, “erano disperati”, secondo quanto hanno detto gli investigatori. E assicuravano di non aver mai visto i loro figli mettere in atto comportamenti violenti. Però hanno confermato che i ragazzi passano ore a giocare ai videogame.
Siamo certi di questo legame tra gioco e violenza? Perché chi passa ore su Minecraft non gira per la città con un piccone a costruire baracche? Perché anni e anni di GTA non ci hanno trasformato in assassini della strada? Forse perché Fortnite non è la causa ma la conseguenza di una problematica maggiore, interna e già presente. Demonizzare qualcosa che è fuori è sicuramente la strada più semplice per scrollarsi da dosso altre responsabilità, che nella vicenda oggetto possono appartenere a più persone: scuola, famiglia, città, il gruppo di conoscenti.
Numerosi studi non hanno trovato alcuna connessione tra i videogiochi e varie espressioni di violenza. Gli organi specializzati statunitensi, già nel 2004, avevano condotto uno studio per identificare le cause delle sparatorie nelle scuole, scoprendo che solo il 12% degli autori di attacchi avevano espresso interesse per i giochi violenti, una tipologia di contenuto multimediale fruito, negli USA; dall’85% dei ragazzi di età compresa tra i 15 e i 18 anni.
E vi dirò di più: uno studio pubblicato nel febbraio del 2016 ha rilevato una riduzione della criminalità nelle settimane successive alle uscite dei principali videogiochi. Una manciata di studi simili condotti da altri organi autorevoli è giunta alla stessa conclusione. Un report del 2013 della American Psychological Association ha riscontrato un legame tra videogiochi violenti e picchi di breve durata nei comportamenti aggressivi. Lo studio è stato respinto da molti esperti, con oltre 230 tra psicologi, studiosi dei media e criminologi che hanno firmato una lettera aperta sostenendo l’agenzia aveva utilizzato una metodologia errata, basandosi su pregiudizi per raggiungere le conclusioni.
I quattro baby vandali mascherati e mimetizzati, con dei picconi tra le mani, non sono seguaci di Fortnite ma vandali, punto. Stare lontani dal cellulare non li renderà migliori, non quanto essere seguiti da psicologici e sociologi per giungere al cuore centrale del problema, che non sarò di certo io a scovare. Ripeto: sparare addosso a opere digitali incolpandole di scatenare la violenza non ci porterà da nessuna parte; così come nelle epoche passate il proibizionismo più largo non è servito a far diminuire il consumo di alcol. Sarebbe più proficuo, per tutti, instaurare un dialogo diverso con il pubblico dei più giovani che si ritrovano a darsi battaglia su una piattaforma virtuale che, intesa per quello che è, darebbe più vantaggi che altro, basti pensare al senso di appartenenza, al community building e alla personalizzazione dell’io fatto di bit.
E allora…#buongiornounCaffo