Si tratta con tutta probabilità di una delle cause più consistenti (per numero di accusanti e loro prestigio) che siano mai state intentate nell’ambito del copyright musicale in rete. A farne le spese potrebbe essere Project Playlist, il sito finito sul banco degli imputati.
Dalla parte dell’accusa ci sono ben 9 tra le più grandi etichette musicali: Warner Music Group, Elektra Entertainment Group, Capitol Records, Priority Records, Virgin, Warner Bros. Records, Interscope Records, Motown e UMG Recordings, una divisione di Vivendi Universal Music Group. L’accusa ha di per sé una struttura molto semplice: Project Playlist baserebbe tutto il suo business sull’infrazione del copyright creando un indice consultabile da chiunque di tutta la musica presente in rete. Una volta cercato e trovato un brano basta cliccarci sopra per ascoltarlo in streaming. Senza, chiaramente, pagare diritti d’autore a nessuno.
Il tranello è proprio quello nel quale fanno molta attenzione a non cadere servizi simili (ma profondamente diversi) come le radio online o Last.fm, tutte compagnie che categoricamente non consentono l’ascolto diretto di un brano in particolare.
Sul sito di Project Playlist si legge la loro linea di difesa: «Noi facilitiamo la creazione di playlist per ogni utente basandoci su file musicali che sono presenti su siti di terze parti. Non controlliamo quei siti e non ospitiamo musica», ma a poco può servire una simile affermazione quando la RIAA l’accusa di «essere bene a conoscenza che la maggior parte dei siti cui fanno riferimento ospitano musica illegalmente».
Ancora più arrogante sembra poi la possibilità che Project Playlist mette a disposizione dei propri utenti, cioè la funzione con cui usufruire del servizio anche attraverso device come l’iPhone o l’iPod o ancora il portare le proprie playlist su social network come Myspace e Facebook. In tal modo Project Playlist ha raccolto una base utenti da 600.000 contatti quotidiani e 9,5 milioni di pagine viste al giorno.