Google sta vivendo in Brasile un problema legale avente alcune analogie con il caso italiano vissuto nel processo per le accuse Vividown. L’esito è il medesimo: Google bocciata, il suo ruolo di tramite non esime il gruppo da precise responsabilità sui contenuti. E tutto ciò in due paesi tra quelli indicati come maggiori “nemici” della libertà nel recente schema promosso dal gruppo in difesa della libertà di espressione. Il Brasile è in tal contesto in assoluto il paese “nemico” per eccellenza con 3663 richieste di dati negli ultimi 6 mesi del 2009 da parte delle autorità brasiliane a Google: Orkut risulta coinvolto in 218 casi sui 291 relativi agli avvenuti interventi censori sui vari servizi di Mountain View.
Sul caso brasiliano non è purtroppo al momento possibile avere alcuni dettagli fondamentali per comprendere appieno il decorso della vicenda giudiziaria (la successione temporale dei fatti, delle richieste, delle segnalazioni e degli eventuali interventi censori sul post incriminato). I fatti, invece, sono chiari e sono stati portati alla luce dalla tv nazionale “Globo”. La denuncia è stata avanzata da un sacerdote dello stato di Minas Gerais il quale si sarebbe trovato accusato su Orkut di molestie sessuali nei confronti di alcuni adolescenti. Il sacerdote non solo ha respinto tali infamanti accuse, ma ha voluto anche intervenire nei confronti di quanti sul social network di Google stavano portando avanti tale violenta tesi accusatoria. L’offensiva legale si è però svelata essere un’arma a salve poiché, in assenza di nomi ed in assenza di collaborazione da parte del service provider, non è in alcun modo possibile procedere contro qualsivoglia utente.
Orkut è stato il primo vero esperimento di Google nel mondo dei social network: clamoroso fallimento in tutto il mondo, Orkut si è invece rivelato un grande successo in Brasile ove ha raccolto fin da subito milioni di utenti ed ancor oggi rappresenta un aggregatore sociale di grande importanza. I messaggi additati dal sacerdote risultano anonimi e la denuncia non ha dunque la possibilità di prendere di mira alcun responsabile. Google, inoltre, si è presumibilmente rifiutata di fornire le credenziali richieste. Per questo, per responsabilità oggettiva e per la mancata collaborazione nell’identificazione del vero colpevole, l’accusa ha tirato in ballo il gruppo gestore del servizio.
Il commento di Oscar Cavini, legale del sacerdote, è stato chiaro: «Se non si identifica l’autore dell’aggressione la responsabilità è di Google, il quale sta contribuendo all’anonimato del trasgressore». Della stessa idea anche il tribunale di appello, dal quale è giunta una sentenza che conferma la prima decisione. Google ha a disposizione ora un terzo grado di giudizio, nel quale tornerà a ribadire la propria manleva di responsabilità. Al momento la ragione sta dalla parte dell’accusa, alla quale è stata riconosciuta di diritto un rimborso di 8500 dollari a risarcimento dell’offesa subita.