Se si parla di Internet, quelli di SBC Communications la
sanno lunga. Basti dire che Prodigy, una loro sussidiaria, è stato il primo
servizio online per i consumatori, ai tempi del Videotex e poi dei BBS. Eppure
un bel giorno di gennaio, navigando sul sito MuseumTour.com, quelli di SBC si
sono imbattuti in una cosa mai vista: in alto, subito sotto il logo del sito,
campeggiava un menu, come quelli che si vedono negli schedari, il quale,
udite udite, non cambiava su ogni pagina, ma restava identico al suo posto
durante tutta la navigazione.
«I selettori del menu», spiega uno stupefatto Harlie D.
Frost, vicepresidente di SBC, «sembrano risiedere in una propria zona
dell’interfaccia utente. E così non vanno persi quando all’utente viene
mostrata una parte differente del documento». Questo metodo pare agli occhi di
SBC, per la sua semplicità una specie di uovo di Colombo; e, per la sua
efficacia, volendo utilizzare un’altra metafora ovoide, una gallina dalle uova
d’oro. È ancora Frost a spiegarcelo: «Separando i selettori dal contenuto,
MuseumTour ha notevolmente semplificato la navigazione nel sito e migliorato lo
shopping dei suoi utenti». Come abbiamo fatto a non pensarci prima, devono
essersi chiesti quelli di SBC. Finché non si sono resi conto di averci pensato effettivamente
prima: l’ufficio per la proprietà intellettuale di SBC, non a caso presieduto
da Harlie Frost, ha scoperto che la compagnia detiene fin dal 1996 il brevetto,
non solo sul menu a etichette, ma anche sui frame e in breve su qualunque
sezione di pagina osi restare fissa e immutabile durante la navigazione. Ora,
quelli di SBC hanno intenzione di far valere i propri diritti ed hanno inviato
ai webmaster di MuseumTour.com e di un’altra trentina di siti richieste di
pagamento che vanno dai 527 a 16,6 milioni di dollari l’anno.
La mossa di SBC sembra tanto più straordinaria se si
considera che proprio Prodigy era stato uno dei primi provider ad essere
colpiti, l’anno scorso, dalla crociata di British Telecom, l’ex monopolista
britannico di telefonia, che pretendeva di avere il brevetto sulla tecnologia
dei link ipertestuali. Ma, a parte le curiosità e l’ironia della
vicenda, la richiesta di SBC Communications pone ancora una volta seri
interrogativi sulle procedure che portano all’assegnazione di brevetti sui
software e sulle tecnologie informatiche, in particolare per quanto riguarda il
Patent Office statunitense.
Fino a qualche anno fa, brevettare un codice era
praticamente impossibile, essendo questo considerato nulla più che una formula
matematica. Recentemente, questa pregiudiziale è caduta; ora, per ottenere il
brevetto, un programma deve semplicemente possedere le caratteristiche di novità
ed utilità. E proprio questo è il punto: se l’utilità dei frame è
indubbia, si può discutere sulla novità del metodo, anche risalendo all’epoca
del brevetto di SBC: la possibilità di visualizzare i frame venne ad esempio
introdotta su Netscape 2.0 già nel 1995.
Un brevetto non è dato una volta per sempre: se negli anni
emergono nuovi elementi che indicano l’esistenza di tecnologie di pubblico
dominio precedenti il brevetto, il Patent Office può tornare sui suoi passi. È
proprio questo che chiede, tra gli altri, il columnist del San Jose Mercury
News Dan Gillmor il quale ha lanciato dal suo weblog un appello ai
lettori affinché inviino testimonianze su eventuali “prior art”, ovvero su
tecnologie paragonabili ai frame pubblicamente disponibili prima del 1996. In
tal modo, c’è chi ha ricordato Hypercard, un software Apple degli anni Ottanta,
che già disponeva di menu fissi tra le varie pagine.
È verosimile che le richieste di risarcimento di SBC
rimarranno inascoltate, e che il brevetto le sarà tolto a breve. Soprattutto,
però, bisogna sperare che il Patent Office metta in futuro più giudizio
nell’assegnazione dei brevetti: ne guadagnerà Internet, ne guadagneranno gli
utenti e ne guadagnerà il Patent Office stesso il quale, come si può
agevolmente verificare facendo un giro sul suo sito, viola anch’esso
palesemente il presunto copyright di SBC.