P2P e vendite di CD: chi ha ragione?

Mentre scatta la prima operazione in Italia contro i condivisori di MP3, esce l'ennesimo studio che nega un rapporto diretto tra P2P e calo delle vendite musicali. I rappresentanti delle case discografiche contrappongono le loro ricerche.
P2P e vendite di CD: chi ha ragione?
Mentre scatta la prima operazione in Italia contro i condivisori di MP3, esce l'ennesimo studio che nega un rapporto diretto tra P2P e calo delle vendite musicali. I rappresentanti delle case discografiche contrappongono le loro ricerche.

Coincidenze. La prima azione legale contro utenti europei di sistemi P2P arriva
nello stesso giorno in cui uno studio effettuato presso le università di
Harvard e North Carolina riafferma un concetto già evidenziato in precedenti
ricerche: il file-sharing non è la causa diretta del drammatico calo di
vendite riscontrato nel settore musicale negli ultimi anni.

I fatti
sono ormai noti. 257 persone denunciate tra Italia, Germania, Danimarca e Canada
per aver condiviso ingenti quantità di file musicali protetti da copyright.
Nel nostro paese sono 30 i coinvolti nell’inchiesta condotta dalla Guardia di
Finanza, tra gestori di server OpenNap e big uploaders sui cui computer
sarebbero stati rintracciati migliaia di brani musicali illegali.

Il succo della
vicenda è semplice da ricavare: l’IFPI, l’organizzazione internazionale
che cura gli interessi dell’industria discografica, ha deciso che la strategia
‘punitiva’, a base di azioni legali contro singoli utenti P2P, debba avere una
portata globale. L’esempio da seguire è quello del suo membro più
influente, la RIAA americana, che su quella strada si è già
incamminata da tempo. Cambiano, è vero, i metodi di indagine e il ruolo
stesso delle associazioni dei discografici perché diversa è la cornice
legislativa (come chiarito in un Focus del mese di gennaio), ma non la sostanza.

Non avremmo accostato le due notizie se a farlo non fosse stata, indirettamente,
una delle parti in causa. Il comunicato stampa sulle iniziative legali rilasciato
dalla FIMI, la Federazione dell’ndustria musicale italiana, è al
riguardo esplicito:

«L’upload illegale ha severamente danneggiato l’industria della
musica a livello globale, causando la caduta delle vendite e la perdita del posto
di lavoro per migliaia di persone. Il fenomeno, che si è verificato in
tutto il mondo, ha generato una perdita globale da 38 miliardi di dollari nel
1998 ai 30 miliardi di dollari nel 2003.»

«Il crollo delle vendite è stato particolarmente significativo nei paesi
dove ha avuto luogo la prima ondata di cause legali. Negli ultimi cinque anni,
il livello delle vendite in Canada ha subito una diminuzione del 30% circa. Negli
ultimi tre anni in Germania le vendite sono diminuite di oltre il 30% e in Danimarca
addirittura del 50%. Le vendite di album musicali in Italia sono scese di 50 milioni
di Euro tra il 2001 e il 2003.»

A chi fa notare la contraddizione evidente tra questo assunto e ricerche come
quelle pubblicate ad Harvard, i rappresentanti delle major contrappongono altri
studi che sostengono il contrario. È quanto ha fatto, per esempio, il presidente
di FIMI, Enzo Mazza, intervistato da Punto Informatico:

«Tutti i maggiori studi di Forrester, Enders e Impact tra il 2002 e il 2003 hanno
mostrato il devastante effetto sulle vendite. Inoltre lo studio di Harward ha
preso in esame il periodo dell’anno, ovvero l’ultimo trimestre, che da solo rappresenta
tradizionalmente il 40 % delle vendite, comparandolo con altri trimestri dell’anno.
È evidente che invece bisogna costruire questi studi su periodi più
estesi.»

È vero. Da che esiste il P2P, dai tempi di Napster, non passa mese senza
che non compaia una ricerca, un rapporto o un sondaggio a sostegno dell’una o
dell’altra tesi. Chiaramente, quello che dà ragione a me è serio,
ben fatto, rigoroso. L’altro è immancabilmente viziato nella metodologia,
nell’approccio o all’origine, magari per via di un committente, diciamo così,
‘interessato’. È un atteggiamento quanto meno semplicistico. Più
che essere branditi come armi propagandistiche contro l’avversario, più
che servire a rafforzare certezze inamovibili, questi studi, anche le contraddizioni
che fanno emergere, dovebbero portare tutti a riconoscere la complessità
del problema.

C’è un caso emblematico, quello di Stan Liebowitz, professore
di economia all’Università del Texas. È l’autore di diverse e ponderose
ricerche sugli effetti economici del file-sharing. Nel corso degli ultimi anni
si è visto trasformare da ‘eroe delle forze anti-RIAA’ (sono parole sue)
in supporter degli interessi delle major. Un voltagabbana? No. Semplicemente,
andando avanti con le ricerche, aggiungendo nuovi dati, giungeva a conclusioni
che contraddicevano in parte quelle precedenti. Tutto è riassunto sul suo
sito personale e in due celebri interviste rilasciate a Salon a distanza di appena
due mesi l’una dall’altra (qui la prima, qui la seconda).

Il terreno, insomma, è di quelli scivolosi. Richiederebbe prudenza,
un’analisi attenta del contesto. Invece, si risponde alla complessità con
semplificazioni a base di metodi spicci. Affermare senza ombra di dubbio che il
file-sharing è la causa primaria del tracollo delle vendite, lascia presupporre
che basta staccare la spina del P2P per rivedere le file nei negozi di dischi.
Siamo proprio sicuri che andrebbe così?

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