Insert coin. Play. Game Over. Il mantra delle sale giochi degli anni ’80 non significa nulla per gli adolescenti di oggi, bisogna essere quarantenni per capire. E per commuoversi e ridere al cinema con Pixels, il film di Chris Columbus che sembra il plot sognato da tutti i nerd della prima generazione: la storia di fenomeni dei videogiochi arcade che finalmente fanno qualcosa di utile: salvare il mondo.
Lo sceneggiatore di un trittico cinematografico per eccellenza degli anni Ottanta (I Goonies, i Gremlins e Piramide di paura), regista di un paio di Harry Potter, ha prodotto e girato un film liberamente ispirato all’omonimo cortometraggio francese del 2010 firmato da Patrick Jean, che immaginava New York invasa da personaggi degli arcade come Space Invaders, Pac-Man, Tetris. La parte principale del lungometraggio americano è affidata a un attore perfetto per questo genere di commedie tardo-adolescenziali, Adam Sandler, che veste i panni di Sam Brenner, genio dei videogiochi che perse la finale del campionato mondiale del 1982 contro Eddie Plant (interpretato dal sempre bravissimo Peter Dinklage, oggi per tutti Tyrion Lannister nel Trono di spade) a causa della sua idiosincrasia per Donkey Kong.
A causa della delusione, invece di iscriversi al MIT Brenner è finito trent’anni dopo a installare impianti hi-fi. Il riscatto però è dietro l’angolo, perché si dà il caso che gli alieni abbiano catturato la sonda che la NASA spedì con la registrazione di quella videogame champioship e l’hanno interpretata con la loro logica un po’ freddina come una sfida intergalattica con il palio il mondo intero. L’umanità è minacciata da mostri pixellosi che si comportano esattamente come i loro omologhi terrestri – Arkanoid si pappa l’intero Taj Mahal – e il presidente degli Stati Uniti (niente di meno che Kevin James nel film) sa che solo riunendo quei due – che pure si odiano – può salvare tutti, compresa la sua popolarità ai minimi livelli. Convinzione che gli riesce facile visto che anche lui, l’inquilino della Casa Bianca, faceva parte di quel gruppo di sfigati tanti anni prima.
Una trama divertente e attori in palla, con dinamica alla GhostBusters ed effetti speciali perfettamente vintage sono più che sufficienti per farne un film gustoso di questa estate. Ma sociologicamente c’è di più. Pixels non ha un solo personaggio classicamente di successo: il presidente è costantemente preso in giro perché leggermente dislessico, sovrappeso e bonaccione; di Brennet si è già detto; il suo acerrimo nemico è addirittura finito in galera per questioni di tasse, un vecchio amico anche lui campione delle sale, Ludlow, vive ancora con la nonna ed è un teorico dei complotti che sogna di sposare un’eroina di Dojo Quest, Lady Lisa. La stessa militare che li aiuta nella sfida, l’affascinante Vanessa van Patten (l’attrice Michelle Monaghan, vista nella prima stagione di True Detective) si è appena separata dal marito, scappato con una insegnante di pilates.
Non è un caso, è una precisa scelta generazionale. Così come un under 30 coglie al massimo un terzo dei riferimenti culturali del film (certo, può diventare una caccia al cameo), i personaggi sono effettivamente una rappresentazione delle caratteristiche della generazione X, quella che ha mostrato appena salita sul palcoscenico del mondo la più forte tendenza ai problemi sentimentali, alle difficoltà nel lavoro, all’insicurezza sociale. Sono stati scritti fiumi d’inchiostro su questa generazione, nel frattempo superata da quella Y, i cosiddetti millennials, completamente diversi da chi li ha preceduti, e un film non può certo avere la pretesa di spiegare questo fenomeno. Però rappresentarne un possibile riscatto cogliendo dal baule della nostalgia e del’ironia, questo sì.
E chi è nato nel primo lustro degli anni Settanta, non ha mai capito lo schema dell’ultimo livello di Donkey Kong oppure sa come i fantasmini fregavano Pac Man col tempo della pillola di energia, non resisterà dal tifare come un forsennato per Brennet/Sandler che trent’anni dopo si trova con l’ultimo martello di fronte al gorilla e colpirlo diventa la cosa più importante del mondo, stavolta per davvero.