Una giornalista sensibile, con una grande capacità di relazione emotiva coi suoi lettori. Così è sempre stata considerata Jodi Rudoren, caposervizio a Gerusalemme del New York Times, una delle giornaliste americane di origine ebraica più famose del mondo. Ma il suo rapporto troppo disinibito con i social media, dove ha espresso pareri personali e poco riflettuti in un ambiente politicamente incendiario, ha convinto il suo giornale a ricorrere a un social editor: una professionalità che probabilmente impareremo a conoscere sempre più spesso nei diversi settori della comunicazione.
Che i social network siano uno strumento indispensabile per i giornalisti dell’era di Internet è cosa nota, così come non si contano le gaffe che questi ambienti possono indurre sia nell’ambito giornalistico che in quello del marketing. Al punto che, tempo fa, la BBC pretese dalle sue firme la precedenza ai profili della piattaforma rispetto a quelli personali, che però sono più seguiti (lo dicono tutte le statistiche).
La giornalista, arrivata nella città israeliana un anno fa, ha collezionato gaffe clamorose, sia su Facebook che su Twitter: post su libri palesemente anti palestinesi, collegati ad articoli del suo giornale dai toni più equilibrati; cinguettii su lacrime davanti a scene di guerra o attentati terroristici nei quali sfuggivano riferimenti linguisti poco apprezzati da palestinesi o israeliani e in odore di pregiudizio. Comportamenti che hanno prodotto reazioni soncertate dei lettori del sito web del giornale. E allerta della redazione.
Sul blog del NYT dove si postano gli editoriali, la collega Margaret Sullivan ha sottolineato come a questo punto ci fossero poche strade da percorrere:
Avremmo potuto dire: lasciamo perdere i social media, scrivi solo le tue storie. Ma visto che il Times lotta per la sopravvivenza nell’era digitale, non era una buona idea. C’è, ovviamente, una questione più grande: i comportamenti della Rudoren, le sue riflessioni personali non filtrate sui social media (e, in particolare, criticate da destra a sinistra), fanno di lei una scelta poco saggia per questo lavoro di fondamentale importanza?
La risposta, e la soluzione, del NYT è interessante: invece di considerare dirimente l’inattitudine ai social della giornalista, si è ideata una figura di supporto. Dal desk, direttamente a New York, un social editor si occuperà di filtrare i post e i tweet della giornalista. Una forma di censura, oppure una surroga? Dipende dai punti di vista, ma dato che la giornalista ha ammesso di aver compiuto gravi errori, il giornale si è sentito legittimato a ideare questa soluzione.
Il social editor per un giornalista è decisamente una figura originale, tanto che Arianna Ciccone, una delle più influenti giornaliste italiane in Rete, l’ha definita una «baby sitter»:
@Claudiogiua social media babysitter :D
— arianna ciccone (@_arianna) November 29, 2012
Ma per quanto originale, potrebbe diventare una nuova professione in espansione. Le qualità che servono per essere un grande inviato, il responsabile di uno staff di giornalisti in una determinata area geopolitica, un cacciatore di notizie, un mediatore culturale, non sono necessariamente le stesse che servono per utilizzare al meglio i social network. E sacrificare le prime alle seconde non avrebbe senso.
Forse il NYT ha scoperto l’uovo di Colombo: dopo l’era della confusione delle competenze, ha inaugurato l’era dell’expertise, dove anche i social media meritano qualcuno che sappia davvero come funzionano senza pretendere che lo sappiano fare tutti.