La scorsa settimana la Protezione civile ha inaugurato un nuovo tavolo che dovrà affrontare il problema dei disastri naturali anche dal punto di vista social. Una questione solo apparentemente marginale, perché questi strumenti sono sempre stati accusati di essere cassa di risonanza dell’allarmismo, ora il concetto viene ribaltato: bisogna sfruttarli per le calamità.
Al momento si è tenuto un solo incontro, sei giorni fa, nella sede del Dipartimento di Protezione Civile, a Roma, ma il gruppo di lavoro ha già due obiettivi: chiarire prima di tutto a sé stesso come incardinare i social media nelle proprie attività; creare delle linee guida nazionali sulla policy da tenere in caso di calamità e allarmi. La ragione è presto detta, basta dare un’occhiata ad un hashtag come #allertameteoLIG, uno degli hashtag più utilizzati per veicolare informazioni a proposito degli effetti del dissesto idrogeologico.
Tramite questi semplici strumenti di aggregazione, corrono più velocemente informazioni di vario genere, da quelle istituzionali ai servizi di pubblica utilità, giornalismo, commenti di privati cittadini. L’enorme mole di informazioni, però, lascia a margine la Protezione civile, che non ha una policy aggiornata sui social network e non ha neppure un account nazionale, ma solo quelli regionali.
17/11 ore 8.00#Genova #allertameteoLIG #allertameteoLIG
Sono iniziati rovesci anche intensi, non temporaleschi, nella parte centrale…— COMUNE DI GENOVA (@ComunediGenova) November 17, 2014
Il modello federale e la maratona di Boston
Lo ha ben spiegato Roberto Scano, invitato a questo tavolo, in un suo articolo: la protezione civile si sta organizzando per creare delle policy dal basso, un primo tentativo di mettere ordine:
Siamo il paese in cui ogni realtà locale si sviluppa la propria app per dare informazioni su meteo, emergenze, informazioni su traffico ecc. mentre è necessario definire dei protocolli su base nazionale (recependo ove disponibili standard internazionali) per consentire a chiunque di attingere a fonti di informazione primaria: non solo opendata “classico” con rilascio di archivi storici di informazioni, ma anche dati in tempo reale, via web services. Ad oggi invece vi è concorrenza pure tra PA per la gestione dei dati.
Alla Protezione Civile ne sono perfettamente consapevoli: il modello nostrano è federale, molto territoriale rispetto agli Stati Uniti, dove l’organizzazione centrale ha il potere di indicare il tipo di hashtag e altri strumenti di comunicazione da utilizzare. Tuttavia, il modello territoriale rispetta anche la vicinanza che una protezione civile ha rispetto a un problema di eventuale calamità o disastro, dunque bisogna trovare la giusta soluzione, fatta di intelligenza collettiva, di standard di comunicazione e anche di moderazione della nuvola di tweet e post su un dato argomento, che ad oggi il dipartimento non fa.
Poter intervenire nel trend con sapienza analitica e capacità di orientare la conversazioni verso informazioni di qualità è ormai uno dei doveri di una istituzione che lavora nell’emergenza.
Tutto è nato dopo un convegno alcuni mesi fa, nel quale era stato suggerito di fare tesoro di esperienze internazionali come Fukushima, Haiti, la bomba alla maratona di Boston (forse l’esempio più brillante di quale risultato si può ottenere) e il tavolo inizierà a lavorarci. Nel gruppo di lavoro ci sono al momento soprattutto i protagonisti del sistema Protezione Civile (regioni, come la Lombardia, comuni quali Genova e Bologna, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, che ha un account twitter sui terremoti molto seguito), poi probabilmente si allargherà. In marzo è prevista la pubblicazione delle linee guida che per la prima volta daranno alla Protezione Civile una social media policy.