Alle normali e consuete modalità di abbandono del posto di lavoro (licenziamento individuale e dimissioni) se ne accosta una leggermente più particolare: il licenziamento collettivo. Come si può ben immaginare, esso va a riguardare una pluralità di lavoratori in legame a una riduzione, a una trasformazione o alla cessazione di attività o di lavoro.
Mentre in Italia si discute sull’introduzione di una copertura assicurativa contro la disoccupazione e un congruo indennizzo a carico dei datori di lavoro, tale eventualità prevede già comunque delle modalità ben precise.
È innanzitutto necessaria una comunicazione anticipata, da parte del datore di lavoro, da inviare a sindacati, associazioni di categoria e soprattutto alla direzione provinciale del lavoro. Al suo interno, dovranno apparire le motivazioni tecniche di tale azione, oltre all’identificazione esatta dei dipendenti da licenziare.
Tra i motivi che la Legge 223/1991 ammette troviamo eventuali carichi di famiglia, anzianità di servizio ma anche esigenze tecnico-produttive e organizzative interne all’azienda.
Tecnicamente, l’atto deve pervenire in forma scritta e nei termini previsti; trovato l’accordo, lavoratore e azienda firmeranno una liberatoria, in cui si impegneranno a non pretendere null’altro dalla controparte.
La comunicazione orale del licenziamento, al contrario, provoca l’inefficacia dell’atto, mentre è annullabile l’operazione svolta in mancanza di uno dei criteri sopra esposti.
Inoltre, entro un tempo massimo di sessanta giorni, il lavoratore ha l’opportunità di impugnare il licenziamento, presentando ricorso. A quest’ultimo, in caso di vittoria legale, farà seguito il reintegro in azienda, in aggiunta a un congruo risarcimento danni.
Al contrario, i lavoratori esclusi vengono posti in mobilità. In questo caso, l’imprenditore è tenuto a corrispondere sei volte il trattamento iniziale dell’indennità di mobilità e nove volte se non ha provveduto a procedere alla cassa integrazione.