Referendum: quell'irresistibile endorsement

Se il voto è segreto, perché non riusciamo a resistere alla tentazione di esprimere la nostra dichiarazione di voto online? E cosa comporta tutto ciò?
Referendum: quell'irresistibile endorsement
Se il voto è segreto, perché non riusciamo a resistere alla tentazione di esprimere la nostra dichiarazione di voto online? E cosa comporta tutto ciò?

Quando mancano poche ore al voto per il referendum costituzionale, potremmo renderci conto di aver commesso una ingenuità. “Potremmo”, plurale, non nel senso che sia stata commessa da tutti, né che rappresenti una colpa per alcuno, ma nel senso che una certa comunità ha avuto questa forte tentazione e vi ha ceduto senza opporre resistenza alcuna. L’ingenuità ipotetica commessa è quella della dichiarazione di voto. E la community è quella del cosiddetto “popolo della rete”, quel popolo inesistente che è identificato semplicemente in funzione della frequentazione al mondo del Web. La riflessione nasce da un post di Francesco Paolo Micozzi:

Dichiariamo il nostro voto online perché non abbiamo più memoria diretta dei pericoli che hanno indotto i nostri “avi” a preferire il voto segreto…

La prima sensazione è che tale intuizione abbia in sé qualcosa di profondamente valido. Ma anche di profondamente complesso.

Dichiarazioni di voto

L’intenzione di voto è sempre stata dichiarata? Probabilmente sì, ma con modalità fortemente diversificate a seconda del contesto storico e sociale. Gli attivisti lo hanno sempre fatto perché è intrinseco nella natura dell’attivista dichiarare la propria preferenza e spingere per la massima pubblicità. Anche nei bar la dichiarazione di voto c’è sempre stata, ma con molta circospezione: era spesso una ammissione faccia-a-faccia, con una cerchia di amici che si chiudeva al numero di sedie disponibili attorno al tavolo e al mazzo di carte, un patto fiduciario che si esauriva con l’ultima pescata. Su Facebook la cosa è differente sotto molti punti di vista e va letta quindi come una situazione del tutto nuova. Da analizzare.

Dichiarare il proprio voto su Facebook (o Twitter, o Instagram o qualsiasi altro social network di medesime caratteristiche) significa anzitutto parlare con community ampie, con ampie cerchie di amici: come urlare in una piazza, insomma. Inoltre verba volant mentre scripta manent, il che implica una testimonianza nel tempo delle proprie idee e delle proprie preferenze: altra assoluta novità. Ancora, le dichiarazioni di voto sono spesso esplicitate anche in modo indiretto tramite un “like” su una pagina di propaganda o tramite una immagine di copertina.

Ognuno potrà contare un altissimo numero di amici che hanno dichiarato la propria preferenza. Con leggerezza, ma con forza, come a farsi attivisti improvvisati pur di imporre questa idea e darne vigore. A prescindere che sia un SI o sia un NO, la cosa che dovrebbe interessare è: perché ce lo stai dicendo?

Endorsement

Perché dichiariamo il voto?

Il motivo per cui dichiariamo il nostro voto su Facebook è pressoché simile al motivo per cui pubblichiamo la foto del figlio, il traguardo conseguito, il “Je suis…” di turno, il meme o altro ancora. Un motivo recondito, in qualche modo riconducibile ad una sorta di “posto dunque sono“. Solo comunicando, infatti, si esiste su di un social network: gli altri sono zombie che fanno da comparse, leggono ma non interagiscono, viaggiano nell’invisibilità e, quando tentano di emergere, si trovano imprigionati nell’invisibilità stessa da cui vorrebbero scappare.

Esistere su un social network significa giocoforza attivismo. Esporsi, dichiarare idee, snocciolare temi forti, battute pungenti, immagini affascinanti, idee taglienti, storie incredibili: tutto fa brodo, purché non si taccia. Lo richiede il social network, del resto: il coinvolgimento è tutto e chi non sta al gioco non ne trarrà giovamento. Una corsa ad alzo zero, quindi, per raccogliere quanta più attenzione possibile a testimonianza della propria esistenza immateriale e del proprio posizionamento in questa dimensione.

Il voto è un momento fondamentale, che polarizza e divide, che richiede scelte nette. L’occasione è dunque perfetta, poiché una dichiarazione di voto crea “amici” e “nemici”, ma da ambo le parti implica comunque attenzione: doppia soddisfazione con medesimo impegno. Dichiarare il voto significa posizionarsi e affermare la propria esistenza all’interno di community pronte a restituire un prezioso feedback. Non conta il NO, non conta il SI: quel che conta nell’intenzione di voto è aver dato fiato ai polmoni e movimento alle dita, postando un’idea per emergere dall’invisibile sfruttando un ascensore comodo ed efficace.

Il voto è segreto

Il voto era e rimane segreto. A garantirlo è quella stessa carta costituzionale per cui si andrà a votare:

Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

Nulla è cambiato in proposito: dentro l’urna ognuno di noi è solo e può esprimere in totale libertà la propria preferenza. La cosa è dunque innegabile: il voto è segreto, anche ai tempi di Facebook, anche se cediamo alla tentazione di anticiparne le intenzioni.

Ma occorre riflettere altresì sul perché sia segreto. E il motivo è nel post di cui sopra: i nostri avi hanno voluto imporre la segretezza del voto poiché, in assenza di quest’ultima, il voto perderebbe di significato. La segretezza garantisce il flusso democratico delle elezioni e la libera scelta dei rappresentanti del popolo. Una dichiarazione di voto online vale poco o nulla, di fatto: non vincola all’esercizio della preferenza stessa, non arriva dentro il seggio e lascia liberi tutti di mettere la croce dove meglio credano a prescindere dal numero di post scritti pro o contro la scelta stessa. Ma c’è dell’altro: la segretezza è un concetto più ampio, fatto di altre sfumature, impossibile da decontestualizzare.

La propaganda e il non-segreto

La segretezza del voto è ispirata al concetto di libertà, che è qualcosa che va oltre ai pochi secondi passati dentro un seggio. Oggi infatti le dichiarazioni di voto avvengono su social network che gravitano in una società relativamente libera e democratica, ove i pericoli di un regime sono remoti ed il rischio nell’esprimere la propria idea è qualcosa di vago e indefinito. Ma non è sempre stato così e non sarà sempre così. Cosa ne sarebbe dei nostri “basta un SI” se al potere ci fosse qualcuno in grado di esercitare clientelismi e pressioni in favore di chi si è espresso per il NO? Cosa ne sarebbe dei nostri “io voto NO” se al potere ci fosse qualcuno pronto alla rivalsa contro chi abbia osteggiato il SI?

Sottovalutare il diritto al segreto solo in virtù della relativa e temporanea libertà di cui godiamo significa realmente sottovalutare quel che la storia racconta, ossia che la ciclicità delle crisi porta in pochi anni allo stravolgimento delle situazioni. Il diritto al segreto dovrebbe dunque estendersi molto, sia a monte che a valle del seggio: bisognerebbe fare in modo che, chiunque voglia esimersi da tale dichiarazione, possa farlo senza il timore di scomparire. Bisognerebbe fare in modo che il silenzio elettorale diventasse una forma di rispetto e di dignità. Ogni volta che si dichiara la propria preferenza, infatti, in qualche modo si spinge un’altra persona a farlo, messa alle strette da un sistema sociale (pur se immateriale) che ne richiede un posizionamento. Come quando, in tempi di regime, erano tutti “liberi” di esprimere il proprio consenso al Duce scendendo tutti assieme in piazza e declamando il proprio favore per l’entrata in guerra.

Esprimere la propria intenzione di voto è un diritto, fa parte del diritto di espressione, ed è un diritto garantito e tutelato. Il diritto non deve però essere giocoforza avvertito come un dovere. Mai. Il diritto di astenersi (tanto dal voto, quanto dalla dichiarazione dello stesso) è esso stesso cardine di democrazia.

Astenersi da settimane di “io voto NO” e di “basta un SI” sarebbe dunque un omaggio alla mitezza e all’equilibrio che dovrebbero portare un paese civile ad una riflessione profonda, ad un dialogo costruttivo, ad un confronto sano (pur se serrato), per arrivare con la giusta serenità alla sentenza dei seggi. Evitare di diventare attivisti sfruttando gli spazi comodi di un referendum sarebbe un buon segno di civiltà nei confronti della community in cui si opera: abbassare i toni, dispensare opinioni senza imporre certezze, ammorbidire i post invece di incendiarne i thread, sono tutti comportamenti virtuosi che andrebbero a beneficio di tutti.

Dichiarare l’intenzione di voto non è certo una colpa, ma non deve essere considerato un merito: pena l’erosione di un equilibrio che è garanzia per uno stato civile. Un equilibrio che oggi nessuno mette in discussione, ma che va preservato comunque. Senza regole, senza imposizioni: una sorta di netiquette, volendo, su cui riflettere con la comodità di poterlo fare in tempo di pace e di libertà.

Referendum costituzionale ai tempi del Web

Così non è stato. Gli spazi del segreto sono stati occupati dalla propaganda, i momenti del silenzio sono stati soverchiati dalle urla, il confronto costruttivo (ossia finalizzato alla costruzione di un percorso di scelta) è stato sostituito da uno scontro tra opinioni predeterminate e mai messe realmente in discussione su di un tavolo di concertazione.
La Costituzione scritta nel dopoguerra potrebbe essere modificata da un voto che avviene ai tempi del Web e non possiamo sottovalutarne le dinamiche. Forse per la prima volta gli italiani sono chiamati ad un voto tanto importante da quando il Web è entrato nella quotidianità di tutti e Facebook ha sostituito i tradizionali luoghi di confronto civile che hanno consentito, in passato, la formazione di una idea consapevole.

Non che in passato la propaganda non riuscisse ad attecchire ancor meglio: Yankees e Comunisti ci hanno tirato per la giacchetta per decenni, tra ideali e derivazioni di tali che hanno inquinato qualsiasi campagna elettorale dal dopoguerra ad oggi. Oggi però vivevamo l’illusione di uno strumento che potesse liberarci da qualsiasi pressione, isolandoci ben prima del seggio all’interno del nostro browser in cerca di informazioni. Oggi ci accorgiamo che la propaganda si è fatta tanto fine da entrare nel browser ed arrivarci nella mente passando da un canale nuovo, da cui ora è difficile liberarsi davvero. Imprigionati nelle nostre filter bubble, dalle quali declamiamo una illusione di libertà, subiamo pressioni con meno consapevolezza e meno vie d’uscita a cui aggrapparci. L’ideale tecnocentrico di una libertà garantita dall’innovazione crolla come un castello di carte, perché se il seggio è libero, a non esserlo è la strada che vi conduce.

Se alla fine decidono sempre gli indecisi (mantra ormai valido da troppi anni), significa che gli altri non hanno mai cambiato idea. Gli spazi dell’intelligenza, quindi, sono stati occupati dal rumore prodotto dagli attriti della polarizzazione. Questo succede in un referendum costituzionale ai tempi del Web: comunque vada, non sarà stato un successo. Per nessuno.

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