A 48 ore dall’Italian Digital Day, l’evento che ha di fatto chiuso il primo anno di attività dei Digital Champions, la chiacchierata associazione fondata da Riccardo Luna che in qualche modo distribuisce un incarico istituzionale lungo i comuni italiani attraverso centinaia di aderenti volontari, restano molte belle parole, molti impegni per i prossimi anni e soprattutto molto entusiasmo. Forse il problema culturale, prima ancora che tecnico e politico, sta proprio nel tecno-entusiasmo promulgato in questi ultimi tempi in Italia: si è passati dal pessimismo immobile a una parodia di positivismo che rischia di farci sbattere. E la prima vittima sembra essere Matteo Renzi che nel suo discorso si è decisamente lasciato andare.
Basta vedere l’intervento del presidente del Consiglio a Venarìa per ammettere che Renzi ci sa fare e gli va riconosciuto almeno un merito: aver intuito che il digitale è un grande tema per il paese. Che attira, aggrega, entusiasma. Nessun politico italiano di alta responsabilità prima di lui aveva mai messo il digitale in agenda con lo stesso peso di temi tradizionali come il mezzogiorno, il lavoro o le riforme. E nessuno aveva pensato di portare più vicino a palazzo Chigi il cuore dell’ecosistema startup italiano, a partire da Paolo Barberis e anche lo stesso Luna, eccezionale raccontatore di storie di innovazione tecnologica.
Paolo Barberis #cosedilavoro #Venaria https://t.co/AkSEftWXpT pic.twitter.com/bOoHNrm0KY
— nomfup (@nomfup) November 21, 2015
Taggare le persone
Perché allora tanta perplessità su questo evento, sparsa nel commentarium social? Una sintesi (sotto nel video) delle affermazioni del presidente del Consiglio richiederebbe per ciascuna voce un approfondimento e giustifica qualche domanda a freddo. Matteo Renzi ha immaginato di abbattere l’evasione fiscale a zero con un click, ha appoggiato l’idea di tutor digitali per ogni istituto scolastico, soprattutto ha fatto intendere alla platea, nell’unico momento di foga, di voler spingere sui meccanismi di riconoscimento facciale, geotaggato, tramite telecamere pubbliche e private, per contrastare il terrorismo. Un concetto che Renzi, non essendo specialista, ha definito «taggare». Sembra essere più che altro l’estensione naturale delle eccezioni già accolte nella legge antiterrorismo approvata questa primavera. L’Italia sarebbe già in grado, norme alla mano, di arrivare alla diffusione delle tecniche biometriche utilizzate negli Stati Uniti, con l’identificativo univoco. Il cosiddetto hashing.
https://www.youtube.com/watch?v=G5ey4jlZr04
Io sono per fare più controlli, per essere più operativo, per avere un sistema di informatica maggiore di digitalizzazione delle immagini, di riuscire a fare riconoscimento facciale; io sono per mettere in comune tutte le banche dati, io sono per far sì che ogni telecamera sia a disposizione della forza pubblica per poter dire che in quella situazione riconosco una persona; io sono per taggare i potenziali soggetti. Ciascuno di noi lascia delle tracce camminando, e credo che non sia un agguato alla privacy dire che si debbano taggare queste persone e seguirle.
Parole in libertà o annunci?
Come valutare parole del genere, in tempi difficili dove la privacy è messa a rischio senza concrete prove della necessità di farlo? Senza slide, senza alcuna documentazione, quelle di Renzi potrebbero essere parole un po’ troppo entusiastiche sulle quali non vale la pena soffermarsi, però come si possono sottovalutare le dichiarazioni di un presidente del Consiglio su un tema di questo genere? Se lo chiedono in molti, tra i maggiori esperti, giornalisti, avvocati, come Fabio Chiusi, Fulvio Sarzana, Mario Tedeschini-Lalli. Senza ovviamente venirne a capo. Parole in libertà oppure qualcosa di più? In che direzione vuole andare il governo? Per costruire un database comune e un sistema di riconoscimento bisogna lavorare sui metadati, ciò significa destinare risorse e obiettivi, a qualcuno, per uno scopo e con dei limiti. Si parla del passaggio delicato tra informazioni precedenti, individuazione di sospetti, passaggio dal trattamento automatizzato alla valutazione umana e decisione finale. Insomma si parla di quel terreno scivoloso che fa mancare stabilità alla privacy con l’obiettivo di bloccare i malintenzionati. Nella speranza di non ridurre i diritti civili. Francamente da una riunione come quella dei digital champions, così fatta, è ingenuo aspettarsi una consapevolezza critica sul vizio capitale della nostra epoca, che è il
“soluzionismo tecnologico”.
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Un altro modo di intendere il Digital Champion
Di questo conformismo si è parlato ieri anche a PresiperilWeb, la rubrica di RadioRadicale condotta da Marco Scialdone, che ha ospitato alcuni digital champions e altre persone con diverse opinioni in merito. Trasmissione che avrebbe potuto durare il doppio se avesse potuto far intervenire tutti quelli che in quel momento twittavano la loro opinione. Segno che forse c’è un deficit di visibilità per chi ha un parere eccentrico, come ha perfettamente spiegato nel suo commento in coda Stefano Epifani:
Il modello di Digital Champion ideato da Riccardo Luna ha creato un meccanismo abbastanza perverso per il quale di fronte all’impegno competente di 200 persone che già lo facevano prima si è affiancato un impegno meno qualificato e meno sistematico di una serie di persone che ruotano attorno a questo mondo in cerca di un qualche tipo di visibilità. Naturalmente giocando sull’equivoco di un’associazione privata che si chiama come una carica pubblica. Il vero problema rispetto alla cultura del digitale è che viviamo di fazioni, invece richiederebbe momenti di condivisione. Questo meccanismo dei Digital Champions ha creato una coesione con una parte di innovatori governativi, di regime, che rende ogni tentativo di critica e di commento inutile, si viene sostanzialmente estromessi da un meccanismo perfettamente oliato e orientato al consenso.
Grazie a tutti gli ospiti che hanno animato il bel dibattito di ieri a @PresiperilWeb su @RadioRadicale #senzafiltri https://t.co/GCmF3qjQf7
— Marco Scialdone (@marcoscialdone) November 23, 2015
Ci sarebbe anche un modello differente, senza mettere in discussione la nomina del DC in sé, ispirato alle esperienze nord europee che, dati alla mano, stanno funzionando meglio. Quello dei campioni digitali per professioni:
In Italia il Digital Champion si basa sul concetto di un esperto per ogni comune. Perché serviva per costruirsi una rete e funziona dal punto di vista della comunicazione. Peccato che sia un meccanismo che detemina automaticamente un potenziale conflitto di interesse e una inadeguatezza del DC nominato in un comune a coprire a 360° le sue esigenze. In Europa ci sono digital champion che afferiscono alle professioni, quindi l’albergatore aiuta gli altri albergatori, il commercialista aggiornato aiuta i colleghi e così via. Questo non solo elimina il conflitto, perché crea campioni digitali che parlano di ciò che sanno a colleghi, ma indipendentemente dal territorio consente l’approccio corretto. Quello che invece ha deciso Luna è mettere dentro la maggior parte degli influencer – e mettendo dentro tutti nessuno critica – nella dimensione dello storytelling che supera di gran lunga l’azione dell’innovazione stessa.
Il tecno-entusiasmo è pericoloso
Manca la proposta. E senza proposta e identità, non si hanno armi contro questa macchina da guerra mediatica basata sul tecno entusiasmo, sull’idea – errata – che Internet abbia creato la versione migliore del mondo. Quando invece si è sovrascritto alla realtà, compenetrandola. Cosa molto diversa. La questione è davvero culturale, deve essere imposta con equilibrio, come ad esempio fa Luca De Biase quando scrive mirabilmente che «una strategia di innovazione per l’Italia, inclusiva e competitiva, non è compatibile con la banalizzazione. Ci vuole analisi critica: e questa non è compatibile con una tattica del consenso oceanico ed entusiasta». Poi aggiunge:
Nel caso della strategia di comunicazione e informazione sulla innovazione digitale gli interessi economici prevalenti sono espressi dalle grandi aziende nazionali e multinazionali. Il loro apporto interpretativo è più orientato a costruire consumatori e clienti piuttosto che attivi protagonisti dell’innovazione. In Italia la banalizzazione sul digitale rischia di essere compatibile proprio con l’aumento dell’uso del digitale da parte dei consumatori e delle imprese che non lo costruiscono ma lo comprano.
Purtroppo il digitale non è trattabile come altri temi alla moda, il gioco retorico non è a somma zero: il tecnoentusiasmo può ingenerare delusioni, far compiere errori, prendere vie sbagliate, e alla fine ha un costo alto. È necessaria un’opera di controcultura, razionalista, sul digitale, che faccia debunking e fact-checking nei prossimi anni e provi a costruire un dialogo, non certo una fazione al posto dell’altra.