Nell’era della sharing economy, laddove la materia oscura che guida i mercati è costituita non più da prodotti e messaggi, ma dalle relazioni, il concetto di “reputazione” diventa centrale. Diventa però complesso definire il concetto stesso: la reputazione da sempre è stata questione sociale, questione di percezione di una altrui persona o marca, questione di opinioni condivise o meno su fatti e valori. Cosa cambia con la trasposizione online del mondo reale? La risposta, in tutta la sua complessità, è molto semplice: non cambia assolutamente nulla.
E se ne è parlato a Pisa, in occasione dell’Internet Festival, all’interno di un panel ospitante Matteo Flora, Daniele Chieffi, Mirko Lalli e The Jackal.
La reputazione è percezione
L’introduzione del tema è affidata a Matteo Flora, esperto in analisi e protezione della reputazione online. Flora inquadra il tema ricordando come la reputazione possa essere per una azienda sia paracadute (qualora le situazioni precipitano), sia elemento distintivo (qualora i mercati si dimostrino ricettivi e si abbiano prodotti da proporre agli stessi). In ogni caso è asset, valore aggiunto da sfruttare e capitalizzare.
In generale, per definire la reputazione occorre considerarla come una «condivisa o comune percezione» nei discorsi degli stakeholder: misurabile, per certi versi, pilotabile sotto altri punti di vista, ma in ogni caso fondamentale poiché filtro tra la realtà dell’azienda e la percezione dell’azienda stessa agli occhi del consumatore finale.
I casi nei quali la reputazione è stata messa a repentaglio da errori di pianificazione o veri e propri inciampi sono molti: Matteo Flora ne snocciola alcuni passando per brand quali Mozilla, Ceres, Fiat, Groupalia e altri ancora, evidenziando in ciò l’assoluta importanza di un team affidabile e consolidato sui social media. I gruppi più attivi sui social media stessi, infatti, sono considerati meritevoli di fiducia poiché avvertiti come “attivi”, mentre per tutti coloro i quali scelgono il silenzio vale la regola del caos: un messaggio non controllato rimane nelle mani del pubblico e l’azienda può farvi i conti soltanto a posteriori. Con tutti i pericoli potenziali che ne derivano.
Di qui la rincorsa delle aziende a riempire i propri brand di elementi valoriali specifici, elementi in grado di “colorare” il marchio posizionandolo sul mercato e nella mente delle persone. I valori sono l’elemento ultimo che le attività di tutela della reputazione online debbono costruire per fare in modo che un brand possa acquisire personalità e rispettabilità. Reputazione, insomma.
La reputazione è mimesi
Al punto di vista di Matteo Flora si aggiunge un elemento ulteriore grazie all’intervento di Daniele Chieffi, Social Media management and Reputation Monitoring del gruppo Eni. Chieffi sposta l’attenzione un passo oltre: non sono i valori in sé a contare, ma l’accettabilità sociale dell’accostamento degli stessi ai brand. La reputazione viene dunque ad essere un qualcosa di più complesso: il suo perimetro è racchiuso all’interno di ciò che le persone sono disposte a testimoniare pubblicamente su qualcosa o qualcuno. Quel che Matteo Flora ha in qualche modo contestualizzato nell’alveo della psicologia, Daniele Chieffi lo ricontestualizza nell’alveo della sociologia: ad aver valore non è il riconoscimento singolo della reputazione, ma il riconoscimento collettivo e le dinamiche di testimonianza e condivisione che vi fanno parte.
Ecco perché la reputazione va intesa quindi anche come “mimesi sociale“: solo la condivisione di un valore dona dignità e riconoscibilità al valore stesso. Dunque un brand non deve brillare agli occhi di tanti singoli per poter piacere al mercato, ma viceversa: deve piacere al mercato per poter brillare agli occhi di tanti singoli. Questione fondamentale di prospettiva.
L’azienda deve in ogni caso farsi portatrice di valori positivi condivisi, poiché deve sgravare il singolo da ogni responsabilità nel momento in cui valuta di schierarsi o meno dalla parte di un brand: se quest’ultima azione non viene considerata come socialmente accettabile, con ogni probabilità il Web non sarà espressione di elementi positivi e il brand rimarrà surclassato dai commenti negativi. Per contro, il commento di critica è facilitato dal fatto che la condivisione sociale di un valore negativo diventa un piano inclinato sul quale scivolano in molti con piacere: farsi portatori di critica contro brand dalla scarsa reputazione è facile e per molti versi piacevole, poiché culla l’ego del commentatore che si sente immediatamente parte di una moltitudine e in modo del tutto deresponsabilizzato.
In quest’ottica commenti negativi e commenti positivi non sono realtà complementari né interconnesse: sono semplicemente due espressioni autonome, frutto di stimoli differenti. Non sono due facce della stessa medaglia, ma due realtà che sorgono da dinamiche a sé stanti.
La reputazione è valore
L’evento si conclude con le testimonianze di Mirko Lalli in tema di turismo e del team The Jackal in relazione al loro incredibile successo raccolto su YouTube.
In entrambi i casi la reputazione è messa al centro del discorso come valore ultimo da difendere e coltivare in qualità di asset fondamentale per la riconoscibilità e l’accettabilità sociale. Che sia un pacchetto turistico, un video promozionale, un sito corporate o un brand, poco cambia: oggi essere sul mercato significa essere nel mercato, farne parte, accettarne le contaminazioni e coltivare la propria reputazione per poter avere un ruolo attivo.
Come sempre, fin da quando il Web ancora non esisteva. Ma oggi le dinamiche sono nuove, accelerate, veicolate da nuovi strumenti e nuovi spazi e richiedono nuove professionalità per saperne gestire i meccanismi e gli attori.
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