Che Uber riesca o meno a portare a Roma un servizio per il Giubileo sarà comunque affar suo. È bastata una settimana dopo l’annuncio del ritorno al ride sharing della nota società californiana per seppellire ogni ambizione di trovare un accordo istituzionale che faciliti l’operazione. Sembra proprio che il Comune di Roma dovrà gestire da solo la patata bollente, il governo ha altro per la testa.
Anche in Italia Uber viene vissuta più come un problema che come un’opportunità. La società californiana è un caso internazionale e va studiata, senza censure né ingenuità. Ci sono però tanti livelli di discussione: in California sta facendo proseliti l’idea di farle assumere i driver; in Europa si discute molto delle garanzie e dell’imposizione fiscale e spesso si finisce in tribunale; in Cina, invece di problemi giudiziari Uber sta affrontando la concorrenza spietata di Didi Kuaidi, sostenuta dal capitalismo governativo di Alibaba e Tencent. E in Italia? Uber Pop è stato sospeso per concorrenza sleale, mentre i tassisti continuano ad aggredire senza sosta ogni tentativo, anche legislativo, di introdurre un po’ di libero mercato nel settore. Per non parlare del corporativismo: giusto ieri i tassisti di Firenze hanno protestato contro il sindaco Nardella che vorrebbe aumentare di sessanta licenze il parco taxi della città.
La riforma solo nel 2016
Il nuovo manager, Carlo Tursi, sta sicuramente lavorando al servizio UberGiubileo, ma è davvero singolare aver annunciato un prodotto con tanto preavviso dando il tempo ai tassisti di reagire come prevedibile. Non manca nulla del solito armamentario: le minacce di sciopero e occupazione delle piazze, persino un sit-in a Montecitorio (ai tassisti non è mai andato giù quell’incontro fatto dall’allora manager Benedetta Arese Lucini con l’Intergruppo per l’Innovazione, valli a capire), le dichiarazioni di contenimento fatte dall’assessore alla mobilità di Roma, il silenzio del governo. Assenza, dicono fonti accreditate, pregna di significato.
Basta guardare il calendario dei lavori: la legge sulla competitività, che Uber spera possa contenere degli emendamenti in grado di riformare la legge del ’92 e sciogliere alcune restrizioni almeno per quanto riguarda gli Ncc, passerà alla Camera a metà ottobre, poi tutto si catalizzerà attorno al Def e il testo tornerà in Senato nel gennaio 2016. Si racconta anche di un incontro del management Uber a palazzo Chigi dove senza mezzi termini è stato loro spiegato che il governo non può dare nessun pretesto al sindaco Marino e che intervenire legislativamente a favore di Uber e contro i tassisti in pieno Giubileo porterebbe ad alzare ulteriormente la crisi tra le due istituzioni.
Insomma, Uber avrebbe finito per essere coinvolta nelle tensioni interne del PD, preoccupato per la tenuta della giunta dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Ecco la ragione del congelamento dei propositi positivi – che permangono – nei confronti di una riforma del settore trasporti. Esiste una maggioranza a favore del ritorno di Uber, ma non adesso. E men che mai durante il Giubileo. Qualunque cosa faccia Uber nei prossimi mesi, dovrà partire esclusivamente dalle leggi attuali e dalla sentenza di Milano.
Un problema globale
In un mondo ideale argomenti come l’economia basata sulla condivisione di beni e tempo individuale altrimenti non produttivi sarebbe materia per pochi esperti, di politiche inclusive, di concorrenza sana. Uber, così come altre grandi realtà della sharing economy (altro esempio paradigmatico è AirBnb) tuttavia non è solo una buona idea di business, ma un gigante da miliardi di dollari con un numero di nemici altrettanto grande. La ragione è già stata spiegata e commentata decine di volte in questi mesi: la cosiddetta gig economy è trainata da tecnologie dell’immateriale che però si interfacciano con la divisione sociale del lavoro ed è talmente deregolamentata da creare enormi concentrazioni, fino al punto di mettere in discussione la tenuta dei mercati sui quali opera secondo le leggi dell’economia precedente.
Purtroppo non esistendo una visione politica chiara e comune di cosa sia questa economia si lascia la decisione, soprattutto in Europa, a corti e tribunali, che però fanno altro di mestiere e tendono a cancellare interi scenari e opzioni; per dirla con l’Economist, «l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è l’imposizione di rigide interpretazioni di leggi obsolete che uccidono queste nuove imprese e sabotano i posti di lavoro». Ovvio perciò che solo la politica globale, sovranazionale, possa trovare una soluzione in materia di antitrust e libera concorrenza dei mercati.