Stefano Rodotà ha tenuto una interessante lezione a Montecitorio in occasione dell’apertura della Conferenza internazionale dell’Unione interparlamentare. Tutto il discorso è stato dedicato al nuovo approccio che la politica deve trovare nei confronti dei nuovi mezzi di comunicazione e dei nuovi equilibri che vanno a definirsi a livello politico e sociale.
«Qual è il destino dei parlamenti nell’età dell’informazione e della comunicazione?». Così inizia l’intervento di Rodotà, integralmente riportato sulle pagine de La Repubblica: «stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico all’altro. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le scelte intelligenti necessarie perchè l’insieme delle tecnologie si risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia».
Rodotà propone quindi alcuni punti di intervento di particolare importanza in relazione al contesto che va a delinearsi:
- «evitare che le nuove tecnologie portino ad una concentrazione invece che ad una diffusione del potere sociale e politico»;
- «evitare che le nuove tecnologie si consolidino come la forma del populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la democrazia plebiscitaria»;
- «evitare che ci si trovi sempre più di fronte a tecnologie del controllo invece che a tecnologie delle libertà»;
- «evitare che nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti»;
- «evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie porti non ad una diffusione della conoscenza, ma a forme insidiose di privatizzazione».
Sulla falsa riga di quanto indicato, Rodotà dona forza al proprio messaggio elencando i 7 peccati capitali che l’uomo politico deve tentare di evitare nell’affrontare l’età digitale:
- «diseguaglianza»;
- «sfruttamento commerciale e abusi informativi»;
- «rischi per la privacy»;
- «disintegrazione delle comunità»;
- «plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia»;
- «tirannia di chi controlla gli accessi»;
- «perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale»;
«Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l’opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di “società della conoscenza”».
Stefano Rodotà affronta l’argomento traendo spunti importanti anche in relazione ai pericoli del digital divide e della libertà di opinione. Per quanto riguarda le difficoltà di accesso allo strumento egli sottolinea come «effettivamente l’uso delle tecnologie, di Internet in primo luogo, produce stratificazioni sociali, l’emergere di nuove categorie di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto riguarda la fondamentale risorsa dell’informazione». Se l’accesso alla conoscenza è un diritto sancito addirittura nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Rodotà vede un grave pericolo nei tentativi di tacciare l’opinione id quanti, ad esempio attraverso i blog, si esprimono per aumentare il volume della conoscenza collettiva».
Quello che Rodotà implora alla comunità politica è una capacità di intervento che torni a prendere la situazione in mano, evitando di lasciare il pallino del gioco alle grandi corporation: «questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perchè alcune grandi società – Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone – hanno annunciato per la fine dell’anno la pubblicazione di una “Carta” per tutelare la libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi».
La chiosa riassume tutto quanto indicato precedentemente, ponendo degna chiusura ad un discorso che difende le libertà, boccia le tentazioni di un regime di controllo e di supervisione su tutta quella che è l’attività comunicativa dei cittadini, promuove la democrazia “diretta” e difende la validità della democrazia “rappresentativa”: «i parlamenti devono esercitare con il massimo rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, con l’argomento della difesa della democrazia, sia proprio la democrazia ad essere perduta».