Una gioia immensa, il desiderio di condividerla subito, trasformando una voce in un coro unanime: la vicenda di Rossella Urru, la cooperante sarda sequestrata il 23 ottobre nel sud dell’Algeria da un gruppo di Al Qaeda, si è tinta di Web 2.0 in questi ultimi giorni, ma purtroppo il giallo si è infittito, finendo con lo strozzare quell’urlo in gola.
Le indiscrezioni, rilasciate da Al Jazeera, secondo le quali la trentenne che operava nel campo profughi Saharawi nel sud dell’Algeria era stata fatta oggetto di scambio con un terrorista, non si sono dimostrate fondate e la Farnesina – sede del nostro ministero degli Esteri – non ha confermato la notizia. Soltanto 10 anni fa, in un modo fatto di giornali e televisioni e qualche blog, non avrebbe quasi avuto la possibilità di arrivare fino a noi, ma nel mondo iperconnesso di oggi la voce sulla sua possibile liberazione è diventata una notizia. Anche se non lo era.
Twitter (in particolare), con gli hashtag #RossellaUrru e #Rossellalibera, e Facebook hanno riprodotto all’infinito quella indiscrezione senza lasciare il tempo agli esperti di verificare la fonte, causando un clamoroso abbaglio, molto doloroso per la famiglia, ovvio, ma soprattutto ha riempito i social network a una velocità incredibile di commenti ed espressioni di gioia che stridono con la situazione attuale, di grande difficoltà nel recepire informazioni credibili in un’area del pianeta quasi completamente scoperta.
Nel giro di poche ore, molti account Twitter sostituivano la propria immagine con quella di Rossella Urru, e le twistar italiane che tanto avevano contribuito a mantenere l’attenzione sul caso (uno su tutti: Fiorello, coi suoi video visti da mezzo milione di persone) non hanno perso un attimo nel gioire per la sua liberazione. Una mobilitazione sincera, che era stata preceduta da altri momenti mediatici, come l’appello in diretta sul palcoscenico dell’Ariston da parte della conterranea Geppi Cucciari.
Ora però, sugli stessi strumenti che avevano portato a questo fenomeno di trasformazione forzata di un tipo di informazione in un altro, si diffondono anche le critiche per questo corto circuito social mediatico. Un’ottima analisi di tutto il dibattitto su Twitter lo fa Arianna Ciccone tramite storify, nella quale si ripercorre a ritroso la vicenda, dove si notano gli entusiasmi ingenui, ma anche l’uso irresponsabile della Rete di chi criticava a prescindere la Farnesina dando più conto alle indiscrezioni di televisioni e fonti arabe sconosciute.
Colpa dei social network? No, la notizia di Al Jazeera era sbagliata. Ma la credulità è una forma di complicità.