«Forse è presto, ma prima o poi, bisognerà porre il problema delle regole nel vasto mare del web». Forse è tardi, ma anche Roberto Saviano è alla fin fine caduto nella retorica del Web pericolosamente-anarchico poiché liquido e poiché immenso. Il ragionamento è lungo, spesso e volentieri zoppo, ma fin dall’inizio persegue un fine evidente: gettare sul tavolo molti dubbi per ascrivere l’ultimo grande punto di domanda sulla leicità della circolazione del sapere sul Web. Interrogativo che si fa più ampio, si fa principio: chi ha la responsabilità, il dovere ed il diritto di discernere la verità, divulgarla ed interpretarla?
Un ragionamento debole fin dall’inizio poiché figlio di una confusione sui termini: riferendosi al passato, Saviano spiega nel suo “In Medias Res” che «La forza di un’informazione risiedeva nel fatto che fosse privata: chi la possedeva era un privilegiato. Oggi le cose sono completamente diverse. Oggi c’è il web, innanzitutto, che tende a diffondere rapidamente notizia o pseudo-notizia». Il che ignora una cosa oltremodo semplice: le informazioni continuano ad essere private e fonte di privilegio per chi le possiede. La Rete non ha cambiato nulla in ciò. Se poi si perde il possesso dell’informazione per qualche motivo, e se per qualche motivo l’informazione stessa finisce online o su un qualsiasi altro medium, allora ecco nascere il caso Snowden di turno. Attribuire alla rete un ruolo proattivo, però, è cosa totalmente errata: se Snowden avesse diffuso le proprie notizie in tv, cosa sarebbe cambiato? Sarebbe cambiata la filiera del controllo, sarebbe cambiata la velocità, sarebbe cambiata la forma, ma non sarebbe certo cambiata la sostanza ed il risultato. La rete non diffonde: la rete è soltanto uno strumento di diffusione. Come lo è stato la radio, la tv, i libri e qualsiasi altro medium abbia contribuito a scrivere la storia.
A questo punto il cuore dell’errore: una interpretazione della Rete fondata su parametri distorti poiché derivanti dal mondo dei media tradizionali.
[…] il web è un mare magnum dove si può trovare chiunque e qualsiasi cosa. È difficilissimo, talvolta praticamente impossibile, discernere il vero dal falso: teorici del complotto che si esercitano su ogni episodio, video che sembrano autentici si rivelano fake, blogger dediti all’arte della denigrazione. Nemmeno il metro della quantità è un criterio utile: migliaia di «mi piace» su Facebook o centinaia di retweet non sono garanzia né di veridicità né prova di un reale interesse. Si concede un apprezzamento massificato a idiozie, si diffondono notizie prive di sostanza o, peggio, false.
La veridicità di questa sequenza di informazioni è impeccabile, ma l’interpretazione offerta è distorta. Perché è vero che il Web è un mare magnum dove di può trovare di tutto, e la terminologia “di tutto” dovrebbe già di per sé chiarire molte cose; è vero anche che i teorici del complotto sono ovunque, ma la cosa è dimostrabile anche su qualsiasi palinsesto televisivo o in qualsivoglia biblioteca; è vero altresì che la denigrazione è all’ordine del giorno, e Saviano dovrebbe ben conoscere questi meccanismi anche al di fuori del Web; è vero inoltre che il metro della quantità non è un criterio utile (quando mai lo è stato?); lapalissiano è infine il fatto che le idiozie raccolgono apprezzamento massificato, e la dimostrazione è nella colonna destra del quotidiano che ospita gli scritti dello stesso Saviano.
Saviano non sta tentando di lanciare una fatwā contro il Web, e di questo occorre darne atto: lo si legge tra le righe, lo si intuisce da quel «forse è presto» con cui introduce la sentenza «prima o poi bisognerà porre il problema delle regole nel vasto mare del web». Un diminutivo che si fa cautela. L’analisi proposta è però una sorta di concessione pericolosa, deriva di un sillogismo che appare superficiale ma non doloso: una difesa dello status quo di un mondo nel quale i media erano il filtro, la politica si assumeva le responsabilità dell’equilibrio internazionale e tutto fluiva più segretamente ma con meno scossoni. Una deriva, probabilmente, che è parte integrante della frattura che si sta consumando tra passato e futuro e di cui il testo di Saviano tratta.
«Il mondo con Snowden è cambiato per sempre»: si può assumere formalmente la fattispecie come una sincope all’interno di un ritmo regolare, ma non bisogna pensare a Snowden come ad una causa o a una conseguenza. Snowden è piuttosto la manifestazione vivente di un mondo che sta cambiando, che non accetta più di delegare ad un manipolo di politici e giornalisti la gestione delle verità. Snowden è l’emergere di un urlo disperato, di una nuova cultura che pretende equilibri basati sulla trasparenza e sulle regole invece che sulla segretezza e sulla gestione delegata della verità.
Ma no, non è Snowden la causa di tutto. Così come non lo è, tanto meno, la Rete. Semplicemente c’è un’implosione in atto da anni, un’involuzione che sta giungendo alle sue estreme conseguenze ed alle sue più forti manifestazioni. Snowden, la Rete, Assange: interpreti e scenografia di un capitolo che sta procedendo con linearità sul canovaccio della storia. Una storia che però, come sempre, si potrà leggere con chiarezza soltanto con il senno del poi e senza le deviazioni e le urgenze della quotidianità.