A seguito dei recenti attacchi terroristici, lo Sri Lanka ha bloccato tutti i servizi di social media nel paese. Secondo il New York Times, la mossa è scaturita da “una decisione unilaterale” da parte del governo, per paura che la disinformazione e l’incitamento all’odio si diffondessero su varie piattaforme, come Facebook e Instagram, e seminasse confusione e ancora più violenza. Il primo ministro Ranil Wickremes ha pregato lo Sri Lanka di evitare di propagare rapporti non verificati e speculazioni.
Di fatto, la nazione sta cercando di disconnettere i propri confini dai social network. E non è la prima volta: lo scorso marzo, dopo le rivolte anti-musulmane che hanno colpito prevalentemente i buddisti, il governo ha avviato un analogo blocco delle informazioni per le stesse ragioni. Da allora, il controllo sui servizi e sulla loro portata globale si è solo intensificato. Lo scorso novembre, Facebook ha ammesso che il suo accesso era stato utilizzato per fomentare brutali violenze etniche in Myanmar e il mese scorso, la sparatoria di Christchurch, in Nuova Zelanda, ha consolidato maggiormente posizioni di chiusura totale, in una sorta di boicottaggio di post e condivisioni.
Il divieto porta ad un’ipotesi implicita e cruciale: è possibile disconnettere una nazione da informazioni in tempo reale su scala globale? Non c’è dubbio che Facebook, WhatsApp e altri abbiano contribuito a diffondere disinformazione e incitare alla violenza ma visto che tali servizi sono divenuti infrastrutture stesse di comunicazione, sanno anche aiutare a trovare aiuto e a sentirsi meno soli, pure all’indomani di una tragedia. Peraltro, in Sri Lanka, alcune persone attribuiscono ai social media uno strumento essenziale per sostenere la democrazia dopo la guerra civile durata 26 anni tra la maggioranza buddista e la minoranza tamil. Ed è proprio la democrazia a fare affidamento su un flusso di informazioni sufficienti a permettere ai cittadini di effettuare delle scelte.
Se in tante realtà fermare Facebook o Twitter non sarebbe una tragedia, farlo altrove, dove il tasso di accesso al web è ancora estremamente basso, ha un significato diverso. Per questo, essere online in Sri Lanka vuol dire essere su Facebook, grazie al progetto promosso anche da Mark Zuckerberg, Internet.org. Ora ci rendiamo conto dell’obiettivo del lentigginoso americano quando parlava di un progetto fondamentale: sostituire l’accesso stesso alla rete con l’accesso a Facebook, trasformando i navigatori generalisti in utenti di Facebook. Ciò rende un divieto assoluto più significativo, nel bene e nel male.
I social media sono solo una parte di complesse circostanze sociopolitiche che richiedono un’azione più puntuale. Mai prima d’ora nella storia, miliardi di persone avevano avuto accesso diretto l’un l’altro in tempo reale. Mai i governi hanno dovuto controllare l’afflusso istantaneo di contenuti attraverso i loro confini. Mai le multinazionali, a prescindere dalla loro ricchezza, dovevano rivolgersi a un gruppo così eterogeneo e diversificato. Mark Zuckerberg ha sempre definito Facebook una comunità ma non lo è e non lo è mai stata. Si interseca con le comunità e crea migliaia di altre comunità all’interno delle sue mura virtuali. Si tratta di una “sovra-comunità” dalla quale oggi ne dipendono molte altre. Una rete di informazione globale, che collega il mondo e tutti i suoi cittadini più o meno allo stesso modo, con piccole modifiche locali. Scordiamoci di dire addio a processi del genere: niente è più censurabile, almeno del tutto, o facilmente eliminabile. Vorrebbe dire eliminare noi stessi.
E allora…#buongiornounCaffo