Non venite ad Amatrice per farvi i selfie sulle macerie, sennò mi incazzo.
Chiaro, conciso. Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice, non usa giri di parole: i fan dell’autoscatto compulsivo non sono i benvenuti nel paesino del centro Italia, se l’intenzione è quella di immortalarsi tra le macerie. Il primo cittadino, ribadendo invece la totale disponibilità ad accogliere tutti coloro che desiderano visitare la zona in maniera rispettosa, racconta di fronte alle telecamere di un’emittente nazionale di aver allontanato alcune persone in posa per un selfie tra le rovine lasciate dal terremoto.
Stamattina ho sorpreso e cacciato via in malo modo delle persone che si stavano fotografando accanto alle macerie.
Reazione spropositata ed eccessiva o esternazioni giustificate per chi da quasi un anno affronta quotidianamente i problemi lasciati dal passaggio del sisma? Le dichiarazioni di Pirozzi hanno acceso, soprattutto in Rete e sui social network, un dibattito che tanto somiglia a quello innescato dopo il disastro della Costa Concordia. Anche allora in molti si recarono all’Isola del Giglio per fotografarsi davanti al relitto della nave. Una discussione però inevitabilmente destinata a rivelarsi sterile e fatalmente condizionata da un giudizio personale e soggettivo (nonché legittimo). Il confronto dovrebbe vertere su un’altra domanda: perché?
Perché?
Cosa spinge qualcuno a puntare l’obiettivo dello smartphone verso di sé per incastonare nella stessa inquadratura il proprio volto e il luogo di una tragedia? Di recente abbiamo chiesto a Luisa Bondoni, storica della fotografia, di parlarci delle origini del fenomeno selfie: da dove arriva e cosa sta diventando. La definizione che ci ha fornito è il perfetto punto di partenza per capire ciò che innesca un comportamento di questo tipo.
È testimoniare di essere in un luogo in un preciso momento, per farlo sapere agli altri.
È solo partendo da qui che si possono indagare le reali motivazioni che portano all’azione: mi trovo in una location nota, desidero che il mio passaggio venga testimoniato. Una dinamica che vale per le macerie di Amatrice e per l’Isola del Giglio così come per qualsiasi altro luogo, non importa che sia stato teatro di un evento drammatico o meno. Ecco dunque che il nocciolo della questione viene a galla: il posto scelto per il selfie si rivela non essere l’elemento centrale e fondamentale dello scatto stesso, ma ne diviene lo sfondo. O meglio, la quinta. Protagonista secondario dell’immagine, strumento utile a veicolare un messaggio differente da tutto ciò che riguarda il terremoto, il naufragio o un qualsiasi altro contesto: “io ci sono, io sono qui”. E se poi si cede alla tentazione di sfruttare i social come cassa di risonanza, la comunicazione si arricchisce di un ulteriore elemento,
Guardate: io ci sono, io sono qui.
Chi si mette in posa per un autoscatto fra le strade di un paese colpito da una tragedia non solo non ha consapevolezza del fatto che il reale interesse nei confronti dei selfie è di solito inversamente proporzionale alle dimensioni dell’ego di chi li condivide, ma si rivela soprattutto incapace di empatia nei confronti di coloro che a quel luogo associano una ferita ancora aperta. Dopotutto, sarebbe sufficiente un minimo di buon senso per immaginarsi a parti invertite, nella posizione di chi è costretto a guardare immortalarsi di fronte alle macerie di quella che un tempo era la propria casa.
Un selfie ad Amatrice non documenta. Un selfie ad Amatrice non è fotografia di reportage. Un selfie ad Amatrice non racconta la storia di chi quelle strade e quegli edifici li ha vissuti o ne è rimasto sepolto. Un selfie ad Amatrice non è nemmeno un autoritratto: è l’espressione più banale e futile del proprio ego, un esercizio di autocompiacimento o nel peggiore dei casi il tentativo di richiamare a sé l’attenzione altrui, associando la propria immagine alle emozioni suscitate dal verificarsi di un dramma. Insomma, un po’ come i vari “Je suis ***” che puntualmente invadono la Rete dopo una tragedia, ma se possibile ancora più oltraggioso e infelice.