Un giorno non troppo lontano gli utenti saranno in grado di interagire con i siti Web che visitano più spesso anche in modalità offline, grazie ad un nuovo standard per la navigazione chiamato Service Workers e sviluppato da Google. A parlarne è stato l’ingegnere software Alex Russell del motore di ricerca, in occasione della conferenza Velocity andata in scena nei giorni scorsi a New York.
Il gruppo di Mountain View ha inoltrato una proposta al W3C (World Wide Web Consortium) per far sì che lo standard possa essere implementato in futuro nei software per la navigazione, a partire da Chrome che lo introdurrà entro la fine dell’anno. Tecnicamente si tratta di uno spazio gestito dal browser in cui salvare documenti, immagini, codice HTML e altre componenti delle pagine Web, in modo da renderle accessibili anche offline, ovvero quando non si dispone di una connessione Internet. Grazie a questo approccio gli sviluppatori potranno far sì che un sito scarichi nella memoria interna (dello smartphone, così come di un computer portatile) alcune informazioni basilari da mostrare anche in assenza di accesso alla Rete, ad esempio l’homepage.
Per capirne il funzionamento si può pensare ad un utente che entra in metropolitana. Mentre sta aspettando il treno inizia a navigare senza problemi, ma non appena lasciata la stazione non è più disponibile alcune rete mobile a cui agganciarsi, con l’inevitabile comparsa di un errore. Grazie ai dati salvati da Service Workers, invece, al suo posto potrebbe essere visualizzata la pagina principale del portale, in attesa che venga ripristinata la connettività per scaricare nuovi aggiornamenti.
Una soluzione di questo tipo presenta pro e contro. I vantaggi, oltre a quelli già elencati, potrebbero essere rappresentati da una navigazione più rapida e veloce in mobilità, riducendo il quantitativo di banda necessario per il download delle informazioni, già immagazzinate nello storage. Il rovescio della medaglia è invece costituito dalla necessità di occupare spazio in locale e in una potenza di calcolo maggiore richiesta per il rendering delle pagine (devono essere messi insieme dati online e altri offline), con una conseguente riduzione dell’autonomia nel caso di dispositivi mobile.
Non è la prima volta che Google si interessa alla questione: diversi anni fa, più precisamente nel 2008, ha dichiarato guerra all’errore 404, con una proposta che non ha però raccolto il successo sperato. L’approccio odierno al problema è però diverso, evoluto e ispirato al funzionamento delle applicazioni native, che nella maggior parte dei casi possono funzionare (seppur con alcune limitazioni) anche senza un accesso a Internet.