Due paragrafi, 46 parole, 26 secondi di discorso su 53 minuti totali. È questo il peso del monito del Garante della privacy a proposito delle immagini dei bambini sui social e possibile relazione con la pedopornografia, ma è stato sufficiente a spazzare via tutto il resto nell’attenzione mediatica facendone un allarme tanto clamoroso quanto infondato scientificamente.
Antonello Soro e la sua struttura, l’Autorità Garante, non si sono mai prestati al gioco del “Web cattivo e pericoloso”, basta leggere la Relazione annuale presentata ieri per averne conferma anche stavolta. Tuttavia, c’è stato uno scivolone, in un preciso passaggio, dove il garante parla di recenti ricerche sul dark web che dimostrerebbero che le immagini pedopornografiche hanno come fonte privilegiata niente meno che le foto postate dai genitori sui social network.
Per altro verso, secondo recenti ricerche, la pedopornografia in rete e, particolarmente nel dark web, sarebbe in crescita vertiginosa: nel 2016 due milioni le immagini censite, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Fonte involontaria sarebbero i social network in cui genitori postano le immagini dei figli.
Vanno evidenziati i due condizionali, ricorda l’ufficio stampa del Garante, ed è vero: Soro intendeva mandare un monito all’opinione pubblica senza pretendere di avere dati nuovi. Tuttavia il problema è proprio questo, ossia che non esistono ricerche nuove. La conferma viene dall’authority stessa: il collegamento pedopornografia-social e relativo incremento si basa su quanto affermato dalle ricerche dell’associazione di Don Noto, insieme ad alcuni report già noti di Europol e Telefono Azzurro. Nel primo caso in particolare, l’approccio è tutto fuorché scientifico. Dato che, alla luce delle ricerche attuali, è approssimativo fare questo collegamento, resta valido il consiglio sul non pubblicare compulsivamente qualsiasi foto dei figli, ma è un po’ meno sensato aggiungere “altrimenti i pedofili le useranno” senza avere dati o dimostrazioni. Il vizio di pubblicare foto dei figli prende il nome di sharenting – fusione di sharing e parenting – e ha molto a che vedere con l’alfabetizzazione degli adulti, con un concetto esteso di privacy, ma poco, presumibilmente, con il Dark Web e addirittura il mercato pedopornografico.
Non sappiamo cosa giri nel Dark Web e quali foto si usino, ma soprattutto quante di queste sono prese dai social. L’1%? Il 10%? Il 90%? E sono collegate a delle identità? E che tipo di foto sono? E come vengono usate? Come pensare che la presenza online di immagini di bambini sia di per sé una fonte per la pedopornografia? E questa pagina di una comune ricerca, allora cos’è?
Riduzione allarmistica
Peccato che i giornali abbiano subito sfruttato un piccolo paragrafo per creare allarmismo. Lo si è notato molto, lo si nota sempre di più. Fa parte di una battaglia ingaggiata dai media mainstream contro la Rete, per obiettivi che hanno a che fare con una reazione frustrata alla disintermediazione. Tuttavia le colpe vanno divise col Garante stesso, che ha appreso a sue spese (forse anche più di quanto meritasse) questa dinamica involuta: se metti anche solo poche parole strumentalizzabili, puoi star certo che si parlerà soltanto di quelle. Come esiste la cosiddetta reductio ad hitlerum esiste anche quella “ad terrorem”.