Terminata la settimana in cui migliaia di persone si sono mangiate una banana davanti a una fotocamera, scattando un selfie per mostrare a tutti il proprio gesto, è necessario chiedersi ancora una volta quale sia il valore vero che ne esce da tutto ciò. Dani Alves ha dato il via alle danze, Neymar ha alimentato la viralità, flotte di follower ne hanno rilanciato il gesto. Per qualche giorno il fronte della lotta al razzismo ha trovato nuova linfa, ma tutte queste energie (sincere e spontanee) sono effettivamente incanalate verso il bene collettivo?
#somostodosmacacos
Chi conosce un minimo il Web ha subito inquadrato l’iniziativa con facilità, poiché è del tutto simile e omologabile ai click compulsivi che trasmettono solidarietà e beneficenza di bassa lega a colpi di “mi piace” e di “condividi”. Il meccanismo è però mefistofelico: si compie un gesto senza costo, dal quale si trae valore. Ci si sente così più buoni, partecipi e integrati, ma in realtà non si è apportato nulla al bene comune. Quello che all’apparenza è segno di grande apertura e altruismo, insomma, nei fatti è frutto dell’esasperazione dell’ego e della necessità intima di far parte di una community della quale si avverte (e si deve puntualmente riaffermare) un senso di appartenenza?
Isolare il fenomeno al Web sarebbe però cosa superficiale, perché sono i fatti stessi a dimostrare il contrario: la banana mangiata da Dani Alves per protestare contro un gesto razzista è una operazione studiata a tavolino, realizzata in un luogo pubblico, trasmessa in televisione e presto rilanciata da “vip” di ogni tipologia, ambito ed estrazione. Nel momento in cui il premier Renzi mangia una banana assieme al ct Prandelli, i vertici dell’Italia che conta (la politica e il pallone) hanno trasmesso il gesto e il Web altro non è se non un tassello di una sorta di bonaria isteria collettiva celata sotto la maschera della viralità. Ma qual è il significato vero trasmesso da tutto questo fermento? Basta mangiare una banana per alzare davvero un polverone anti-razzismo, o di fatto si è invece solo trasmesso un qualcosa di molto più sterile, ossia il fatto che si mangia una banana e lo si fa assieme a molta altra gente in modo asincrono?
Non sarà questa banana a sconfiggere il razzismo. E se il mangiare la banana può forse pulire la coscienza di fronte a sé stessi, non sarà invece un gesto di questo tipo a renderci davvero immuni dal sottile veleno del pregiudizio. Una innocente ipocrisia rischia di minare i pur bonari intenti di chi si vuol rendere partecipe di un coro collettivo contro il razzismo. Nessun singolo ne ha colpa, ma se non si ha consapevolezza della dinamica collettiva in cui si entra, allora ecco che grandi energie vanno sprecate, il razzismo resta e la solidarietà sfuma come semplice vapore.
#siamotuttirazzisti
Per combattere il razzismo, insomma, bisogna davvero mangiare una banana, farsi un selfie o indossare una maglietta #somostodosmacacos? Basta un like di ammirazione per Dani Alves o una condivisione ripetuta dell’immagine di Neymar?
Spiega la lucida analisi di Padre Antonio Spadaro, che troppo spesso il concetto di “dono” è cambiato nel tempo, poiché oggi rappresenta sì un “dare” qualcosa, ma al tempo stesso è un “dare” privo di rinuncia. Nel momento in cui si mangia una banana e si porta la cosa online, insomma, si è “data” la propria solidarietà e si è “offerto” il proprio appoggio, ma in realtà il tutto non ha avuto alcun costo. Un dono senza costo ha medesimo valore? Se non si rinuncia a nulla, il gesto ha lo stesso significato? Il paradosso del P2P è in questo: tutti donano, tutti condividono, ma in realtà nessuno sottrae nulla a sé stesso. Nel mondo della riproducibilità digitale, anche la solidarietà può diventare oggetto di un rapporto più nichilistico e freddo tra le persone, nel quale la comunione è più forma che non sostanza?
Usciti dal mantra delle banane, e in attesa del prossimo gesto virale da condividere ossessivamente per confermare a noi stessi di essere parte della grande community del mondo, bisognerà riflettere un attimino su cosa abbia vero valore e cosa invece sia mera metacomunicazione. Per poi ricordare una cosa, che è la più importante di tutte: nessuno nasce razzista. Prima di combattere il razzismo, insomma, bisogna individuarne il seme e capire chi lo innaffi ogni giorno con gesti, pensieri, parole e atteggiamenti ben più diffusi e pervasivi che non l’addentare una banana.
#siamotuttirazzisti sarebbe forse una presa di coscienza più seria e utile di #semostodosmacacos, sedendo umilmente dalla parte dei cattivi invece di prenotarci un posto in Paradiso, sperando di averlo gratis e aspettandolo mangiando banane.