Internet non è più il luogo delle libertà per eccellenza, quel medium comunicativo che, fatto dai navigatori per i navigatori, è patria della comunicazione libera. Sta scivolando sempre più nelle trappole della censura e del controllo, soprattutto dopo la lotta infinita al terrorismo post 11 settembre.
A ricordarcelo è Silenced, un corposo e dettagliato studio scritto a quattro mani dalla Privacy International, un’associazione di promozione dei diritti umani, e dal GreenNet Educational Trust (GET), un gruppo che si propone di diffondere l’uso delle reti telematiche tra la popolazione.
Il rapporto è stato elaborato nell’arco di un anno e le sue conclusioni sono state esposte lo scorso 19 settembre all’incontro preparatorio del World Summit della Società dell’informazione in programma a Ginevra per dicembre. Centoventinove pagine per rimarcare come in tutti gli stati, di primo, secondo e terzo mondo, esiste la censura dell’informazione sulla rete. In forme e modi diversi, dagli Stati Uniti allo Zimbabwe.
Lo studio non solo conferma che la tendenza in atto, in modo deciso ed evidente dopo l’11 settembre, è quella di un controllo sempre più ferreo da parte degli Stati sulle comunicazioni in rete per prevenire atti di terrorismo, ma si sofferma ad analizzare i nuovi metodi di controllo, le pratiche acquisite, i motivi e le possibili soluzioni per il futuro.
Netto è il giudizio sui due paesi occidentali che da sempre mettono al centro la libertà d’espressione. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra hanno fallito nel porsi come esempi di libertà di espressione e «i regimi non democratici guardano all’Occidente per le tecnologie e le tecniche di repressione».
Sbaglia chi pensa che la represione delle libertà avvenga solo per mano dei governi nazionali. Gli attori di questa battaglia possono essere anche le grandi compagnie che controllano il mercato: ogni provider potrebbe semplicemente restringere l’accesso alle risorse sulla rete a quelle offerte da sé stesso, censurando tutta la restante offerta.
Le tecniche possono essere le più svariate. Accanto alle leggi e regole, emanate sia da uno Stato nei confronti dei cittadini, sia da una software house che impone un ‘accordo’ di utilizzo di un software, ci sono forme di censura tecnologiche, che provvedono a restringere i contenuti accessibili sui siti solo a utenti registrati o appartenenti alla ‘rete’ di chi fornisce i contenuti. Altre forme di censura intervengo a livello di infrastrutture di accesso: se il costo dell’hardware o della connessione alla rete è troppo alto, solo un’elite riuscirà a collegarsi.
I dati sui singoli paesi sono una fonte enorme di conoscenze. Dallo Zimbabwe, in cui i media sono controllati e repressi dalle forze governative, alla Birmania, paese in cui sino al 2001 vi era un’unico provider, di proprietà dello Stato, paese che tuttora filtra ogni singola connessione permettendo l’accesso a solo 10 mila siti in tutto il World Wide Web.
Ce n’è anche per gli USA, paladini delle libertà civili ma primi ad approvare limitazioni nell’uso della rete, sia attraverso apposite legge sia permettendo il proliferare di licenze d’uso restrittive da parte delle grandi corporation.
Poche parole per l’Italia, paese in cui secondo gli estensori del documento non ci sono state palesi operazioni di censura nei confronti delle comunicazioni sulla rete Internet. Il documento è invece duro verso l’autorità Garante per la protezione dei dati personali che, secondo gli estensori, non ha fatto nient’altro che «emanare una generica dichiarazione sulla necessità di non sacrificare la privacy alla “sicurezza pubblica” e alcuni provvedimenti su spam, e-mail e profilazione degli utenti».