Silicon Valley e giornalismo: quasi o mai amici?

Al festival di Perugia si è parlato molto di media e social, un trasferimento di sovranità pieno di incognite: intanto Facebook sembra mangiarsi tutto.
Silicon Valley e giornalismo: quasi o mai amici?
Al festival di Perugia si è parlato molto di media e social, un trasferimento di sovranità pieno di incognite: intanto Facebook sembra mangiarsi tutto.

È venuto a mancare il terreno sotto i piedi, alcuni editori fanno meglio di altri, alcuni falliscono, tutti sono confusi, ignari, oppure arrabbiati. I modelli di distribuzione dei contenuti validi fino a cinque anni fa sono già un’altra volta mandati all’aria da gigantesci reintemediatori, da Facebook a Snapchat, tanto da far sembrare il vecchio nemico Google una spalla rassicurante. Forse il panel per eccellenza della decima edizione del Festival del Giornalismo è stato quello intitolato “Silicon Valley and Journalism”, che ha fatto i conti col presente per guardare al futuro, senza il clima pacifico di una tavola rotonda. Somigliava di più a un ring.

All’IJF16 si è parlato di tante cose, ci sono state edizioni precedenti dove l’industria delle news e le piattaforme social sono state al centro di più eventi, questo invece è stato un festival degno della decima edizione: ricchissimo, non monografico. Tuttavia uno dei migliori incontri visti è stato proprio quello organizzato con il Tow Center (una garanzia) intitolato Giornalismo e Silicon Valley (video), che ha avuto l’ardire di mettere sullo stesso palco un editore di lunghissimo corso come la BBC, nella persona di Trushar Barot, mobile editor per BBC World Service, Madhav Chinnappa, direttore delle relazioni strategiche di Google, il cane sciolto Mathew Ingram (del Fortune magazine) e Craig Silverman, direttore di Buzzfeed Canada. In altri termini, era come uno di quei pranzi tra parenti lontani dove tra un sorriso e l’altro ti auguri che non volino i coltelli. Emily Bell, geniale e divertente direttrice e fondatrice del Tow Center for Digital Journalism, ha cercato di fare la padrona di casa, un po’ come Meryl Streep nei “Segreti di Osage County”.

L’anguria

Il video post più condiviso su BuzzFeed, il sito d’informazione fondato nel 2006 da Jonah Peretti (cofondatore dell’Huffington Post), è un vero record, il famigerato esperimento degli elastici che fanno esplodere l’anguria. Il simbolo per eccellenza del contenuto nativo capace di raccogliere visitatori e alzare il ritorno sull’investimento degli inserzionisti. Una manna per chi punta tutto sul social-only, che però piace pochissimo a chi, come Ingram, pensa si tratti di gettare la spugna, di svendersi senza in realtà guadagnarci nulla. Un problema che le piattaforme tradizionali come la BBC stanno evitando, in parte, investendo denaro nelle traduzioni in più lingue, inviando corrispondenti, lavorando il più possibile sui propri prodotti in mobilità, magari contando sulla tecnologia AMP fornita da Google.

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Ogni aumento di bacino di lettori significa potenzialmente corrodere il centralismo di un social media, che ovviamente per sua natura e interesse non vorrebbe mai farci uscire dal recinto. Così lo spiega Barot:

I mercati occidentali devono capire che un miliardo di persone entreranno in rete senza i vent’anni di evoluzione che abbiamo alle spalle. In Africa e Asia compreranno smartphone a basso costo, strategicamente Zuckerberg ha comprato Whatsapp perché Facebook forse ha concluso la sua penetrazione nei mercati, mentre Whatsapp può arrivare ovunque, non ha bisogno di una mail, che è un tipo di servizio che molti non usano.

Detta in soldoni, Facebook ha acquisito l’audience che gli altri non hanno. Periscope sembrerà solo una scappatella fuori casa dopo i live video per tutti. Dove vuoi andare, c’è tutto sul sito blu. Facebook sta diventando Internet. Un altro tema collegato, che stavolta importa a Google: questo modello consuma dati ed espande tecnologia mobile, ma il costo dei dati non scende al ritmo del costi dei device. E se è vero che i 18-24enni dei paesi emergenti sono interessati alle news (in India si è scoperto che l’introduzione della cultura generale nei test scolastici ha dato impulso ai siti di notizie) allora vuol dire che siti come BuzzFeed devono fare di più nell’ottica internazionale. Ma per quale ragione? E soprattutto con quale controllo, visto che la strategia primaria è comunque arrivare direttamente alle persone?

Il convitato di pietra del panel, e così è stato in parte in quello di Evgeny Morozov, straordinario e appassionato nel suo intervento presentando il suo ultimo libro I signori del silicio, è stato sicuramente Facebook, assente al Festival. Cosa fare con gli Instant articles, con la pressione per l’utilizzo dei Live Video? Che social uscirà dall’F8 delle prossime ore? Tra disagio e sperimentazione per ora vince la morale dell’equilibrio. Chinnappa (che lavorava a BBC), assicura:

Google è sicuramente parte del sistema editoriale, ha un riconoscimento nell’ecosistema news. Nei nostri colloqui con gli editori, abbiamo costruito un rapporto maturo. È molto complicato lavorare in questo meccanismo di distribuzione, di per sé non aiuta gli editori, ma noi rispondiamo con un approccio aperto. Le accelerated pages sono un esempio.

Ingram però non è molto convinto: perché le app mobili sono lente? Forse il double click non fa parte del problema? Ovvio che le tecnologie pubblicitarie hanno un peso e se il progetto open source di Google è la scelta migliore, neanche gli ingegneri sanno dove stiamo andando:

La parte peggiore è che tutto è molto opaco. Molti editori hanno visto un calo del 20% di affluenza su certe piattaforme, improvvisamente. Fisiologico, strategico? Non si sa. Sicuramente tende a rendere dipendenti dai nuovi prodotti.

Craig Silverman difende il suo punto di vista, sostenendo che la guerra tra giornalisti e business prima o poi finirà:

BuzzFeed ha preso una decisione: non avremmo partecipato al paid content. Passare al branded invece è ottimo per il nostro sito, visto che si caricano più velocemente. Siamo un’agenzia che produce contenuti. I giornalisti non dovevano mai occuparsi di pubblicità nel passato, ma la guerra finirà e non è per forza un male. Il futuro è scrivere in modo da fare business.

Peccato però che non è facile ottenere dati affidabili, il modello di comportamento degli utenti adottatto da BuzzFeed sembra orientato a informazione di bassa qualità, se pur con il doppio binario: alcune risorse guadagnate con l’anguria che esplode vanno a reportage molti belli e accurati. Dunque bisogna soltanto copiare chi usa meglio la monetizzazione social, oppure continuare ad averne timore?

Forse una delle filosofie fondamentali è cedere sovranità per dati interpretabili e comunque non cederla tutta, perché Facebook, ad esempio, sta cercando sempre più di promuovere contenuti originali. Perciò è intimamente avversario dell’eventuale successo di un produttore di contenuti che punti a vedersi riconosciuti molti click delle stesse cose.

Lo shaping

Si chiama shaping, la forza modellante di Facebook, Twitter, Snapchat, Instagram e altre piattaforme che riescono a influenzare il giornalismo non solo in termini economici, ma anche nelle decisioni strategiche. Un esempio? Il team politico di Mashable è stato cancellato, il sito ha scelto di orientarsi sull’entertainment che offre maggiori introiti. Stanno cambiando gli intermediari che decidono come si seguono i lettori e cosa si deve dare loro, cosa si meritano di sapere. Un pensiero interessante è stato espresso, in un panel sui millennials, da Federico Guerrini. Il giornalista di Forbes e della Stampa ha evidenziato come in realtà esistano modelli alternativi che non prevedono la scelta tra il non usare le piattaforme oppure cedere i propri contenuti. Si può provare semplicemente a costruirle da sé, come avviene in Germania.

https://www.youtube.com/watch?v=lnrpl-4oF2s

Che festival

Basta scorrere la sintesi degli incontri di questa edizione per rendersi conto del valore del Festival Internazionale del Giornalismo. Tutta la crisi di questo mestiere, i dati, le possibile strategie, le storie, le raccomandazioni degli esperti su come difendersi dai pericoli della professione e da quelli che riguardano tutti, come la sorveglianza globale. E poi ancora i nuovi linguaggi, i personaggi emergenti, i grandi testimoni della storia, i metodi di giornalismo investigativo alla luce del web, degli open database. È stata un’edizione eccellente, che ha ripreso molti temi storici del festival e li ha proiettati in avanti, essendo ancora irrisolti, o comunque evoluti.

A Perugia sono passate 65 mila persone in 5 giorni, 1850 camere degli alberghi sono state prenotate per speaker e ospiti, 549 i relatori provenienti da 34 paesi diversi, più di 2000 i giornalisti accreditati, 259 gli eventi, tutti a ingresso libero, dei quali 85 in traduzione simultanea. Tra incontri, talk, interviste, serate teatrali, premiazioni, presentazioni di libri, case history, startup, nuove realtà e tendenze editoriali, sono stati occupati 17 luoghi del centro storico. L’hashtag #ijf16 ha prodotto circa 50mila tweet dal 6 al 10 aprile, provenienti da circa 10mila utenti diversi (e da 4 continenti). Su Facebook 440 mila visualizzazioni dei contenuti del festival, 120 mila like e clic, 50 mila visualizzazioni dei video nativi.

Di qualunque cosa si vorrà discutere tra un anno a proposito dei cambiamenti in atto nel mondo dell’informazione, si dovrà passare da Perugia.

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