Smartphone o notebook realizzati con materiali plastici che si autoriparano quando un utente distratto li lascia cadere a terra. Presto tutto ciò potrebbe diventare realtà grazie ai ricercatori dell’Università del Mississippi che hanno realizzato una plastica in grado di riparare se stessa quando danneggiata.
I risultati dello studio sono stati presentati nel corso di un meeting a San Diego dal professor Marek W. Urban. Il nuovo tipo di plastica creata dai ricercatori simula la capacità della pelle umana di autorigenerarsi. Quando si graffia o si rompe, la plastica cambia colore mostrando in rosso la zona danneggiata, e quindi si autoripara se esposta alla luce visibile e ad una variazione di temperatura o pH.
La plastica è molto utilizzata e, in pochi anni, ha sostituito acciaio, alluminio, vetro e carta, grazie alle sue proprietà di forza, leggerezza e resistenza alla corrosione. L’unico difetto, per il quale gli scienziati di tutto il mondo cercano una soluzione, è la difficoltà o l’impossibilità di riparare un oggetto di plastica quando si graffia o si rompe. La plastica che si autoripara potrebbe quindi diventare il Santo Graal della scienza dei materiali.
Il segreto della plastica creata dai ricercatori guidati dal professor Urban consiste nell’utilizzare minuscoli legami molecolari o “ponti” che rivestono l’intero materiale. Questi legami cambiano forma quando la plastica si rompe. I ricercatori hanno fatto in modo che i cambiamenti di forma siano mostrati con un cambiamento di colore (il rosso) dell’area danneggiata. In presenza di luce solare, della luce di una lampadina, di una variazione di temperatura o di pH, i ponti si riformano, riparano il danno e cancellano il segno rosso. Questo processo può essere ripetuto un numero elevato di volte.
Il materiale è anche amico dell’ambiente, in quanto realizzato con una tecnologia a base di acqua, senza nessuna sostanza tossica. La plastica “magica” non è ancora pronta per la vendita, ma i possibili usi sono molteplici, dall’elettronica all’aviazione, passando per attrezzature militari. La ricerca del professor Urban ha infatti ricevuto fondi dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.