Smartphone, mirrorless, reflex: analisi critica della fotografia odierna

Smartphone, mirrorless, reflex: analisi critica della fotografia odierna

Trascendendo da premesse troppo ampollose, senza tuttavia voler polemizzare, sentiamo parlare ogni giorno di fotocamere con risoluzioni vertiginose, cellulari che scattano foto professionali, tecnologia che corre. Non è necessariamente un male. L’evoluzione tecnologica alimenta e allo stesso tempo soddisfa e stimola un mercato estremamente dinamico, in un panorama dove si rischia, tuttavia, di perdere il vero senso della fotografia.

Nel giro di un paio di settimane abbiamo assistito alla scomparsa di due icone della fotografia: prima il genio di Peter Lindbergh, poi Robert Frank, l’innovatore di “The Americans”. Nel frattempo viene presentata la nuova generazione iPhone che, in linea con le tendenze, si propone (con i soliti slogan) di espandere i confini della mobile photography. Sembra proprio che da una parte, con le sue icone, stia tramontando quella fotografia vera e tradizionale, sana, di valore, che ci ha fatto conoscere il mondo e ci ha ispirato. Dall’altra, invece, continua ad innalzarsi sull’orizzonte l’astro della fotografia dei cellulari, dei megapixel, del vanto tecnico fine a se stesso e dello status symbol. Lo dimostra il modo in cui il pubblico sia così fermamente concentrato sul mezzo, senza più curarsi del gesto. La fotografia, per chi la ama, per chi la percepisce, è anche il gesto: un insieme di azioni che compiute consapevolmente conducono ad un risultato.

L’avvento del digitale, l’arrivo degli smartphone, infine quello delle mirrorless, hanno determinato un cambiamento progressivo ma evidente nell’approccio alla fotografia. Si sta perdendo il contatto diretto con la realtà quando si scattano le foto: già con le mirrorless, ad esempio, nel mirino vediamo una realtà filtrata, processata digitalmente. Vediamo lo scatto ancor prima di effettuarlo. Non lo visualizziamo più nella nostra mente, non lo produciamo più a partire dalla realtà, lo vediamo già riprodotto. Fra 20 o 30 anni è possibile che nessun fotografo (semmai esisterà ancora “il fotografo”) avrà la possibilità o il piacere di guardare il mondo attraverso un mirino ottico o un telemetro.

Allo stesso modo adesso è sempre più raro vedere le proprie foto stampate: siamo nell’era dell’istante, della condivisione immediata, del contenuto che non è destinato a permanere ma è vincolato ad un feed. I nostri scatti esistono per quelle poche ore in cui un algoritmo le propone ad una platea di gente, più o meno vasta, che è in realtà interessata a tutt’altro. Dunque si produce più materiale, lo si fa tuttavia con meno consapevolezza e dunque meno qualità (e non sto parlando di qualità tecnica) e lo si fa per un pubblico spesso distratto.

Se da una parte lo sviluppo tecnologico ci sta permettendo di raccontare giornalmente le nostre vite e sta dando a tutti la possibilità di scattare foto “belle”, è vero anche che non dobbiamo perdere il contatto con la fotografia tradizionale, quella del gesto, quella del progettare un’immagine nella propria mente, quella di assoggettare alla nostra visione un mezzo, e non dell’essere guidati da tecnologia ed algoritmi di elaborazione, filtri digitali e mode. Che ne sarà, dunque, della Fotografia? Rimarrà un qualcosa di nicchia, per coloro vogliano ancora provare il piacere di scattare foto, dunque un piacere relativo al gesto di inquadrare, mettere a fuoco, impostare diaframma ed esposizione per poi scattare? Sembra quasi facile pensare che in futuro tutti i veri fotografi saranno proprio gli amatori, quelli che cercheranno la poesia e la felicità del fare la fotografia: per dirla con le parole di Erich Fromm, quello che importa è l’attività in quanto tale, il processo e non il risultato.

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