Politica e social network. Sarà stato il fatto – non intenzionale – che la settimana milanese è stata a ridosso del voto, ma la Social Media Week di Milano ha dedicato alcuni fra i suoi panel più interessanti al rapporto ormai molto stretto fra gli strumenti della Rete e le campagne elettorali. Con una sostanziale differenza: un conto è chiedersi come Twitter e Facebook hanno cambiato il mondo della politica, un altro è osservare come la politica è entrata in questi siti e cosa ne ha fatto.
Il primo appuntamento è stato quello del 20 febbraio, moderato dalla giornalista Anna Masera (social media editor per La Stampa), che ha intervistato Matthias Lüfkens, Managing Director Digital di Burson-Marsteller e Head of Digital al World Economic Forum. Un viaggio dentro il rapporto tormentato fra i politici e Twitter, con una riflessione specifica su quelli italiani.
Se infatti Obama è certamente un grande esempio, la maggior parte dei politici mostra di non comprendere lo stile bottom-up di un social, preferendo trasferire quello tipico uno-molti e dimenticandosi completamente i concetti di following e risposta.
Il caso del ministro degli Esteri Giulio Terzi che segue solo 15 utenti su Twitter e tra questi mancano molti suoi colleghi europei (che invece con buona creanza lo seguono) ha fatto sorridere in sala, ma anche la percentuale incredibilmente bassa, anzi nulla, di risposte che Beppe Grillo ha dato a chi lo menziona su Twitter – due nell’ultimo anno – lascia abbastanza sconcertati.
Di fatto la politica su Twitter in Italia è basata sull’uso banalmente propagandistico dello strumento, con percentuali irrisorie di feedback e altissime di re-tweet. I follower dei politici sono invitati a moltiplicare il pensiero del leader oppure hanno la soddisfazione di vedere replicato il messaggio a loro indirizzato senza una risposta personale, passando da cittadino a massa. Ma l’illustre ospite, rispondendo alle domande del pubblico, ha voluto anche rassicurare che si tratta di un passaggio fisiologico dentro una fase di cambiamento della comunicazione tra istituzioni e cittadini.
Non meno stimolante il dibattito concluso oggi sui Social Media Politics, organizzato con il consolato americano a Milano. Insieme al professor Robert Shrum della New York University, e coordinati dal giornalista Guido Romeo di Wired, hanno discusso di campagna elettorale i sondaggisti Luigi Curini e Stefano Iacus, Daniele Dodaro e Diletta Sereni, ricercatori di mercato diventati famosi per gli Squadrati, e Paolo Guadagni, autore della più completa visualizzazione online dei simboli partitici italiani in competizione in queste elezioni.
La situazione è immaginabile: non tutti i simboli politici hanno un sito web, non tutti i candidati sono presenti nei social. In pieno 21° secolo, l’unico modo per avere tutti i simboli dei partiti, circoscrizione per circoscrizione, è stata quella di fotografarli sui manifesti del ministero degli Interni a Roma.
Una battaglia navale surreale, tra “forza Lazio” e “forza Roma”, tra cinque partiti con la falce e martello, due partiti pirata, due partiti col simbolo del dna, il sacro romano impero, monarchici e chi più ne ha più ne metta. I simboli di partito presenti ufficialmente alle elezioni sono 184. Con questo grado di contaminazione tra vecchio e nuovo, tra piazze e blog, tra tecniche antiquate e personalismi azzardati, è quasi impossibile fare un’analisi sulla comunicazione politica in Italia, come invece il professor Shrum è stato in grado di fare su quella d’oltreoceano:
La più sensibile differenza con gli Stati Uniti è che per noi è molto chiaro, da parte sia dei democratici che dei repubblicani, che la democrazia ha bisogno di informazioni e di trasparenza. In Italia mi auguro si arrivi presto a più trasparenza nella comunicazione politica, a partire dai sondaggi fino al rapporto con l’amministratore. C’è ancora paura delle conseguenze di un’apertura delle informazioni, ma è dimostrabile come bisognerebbe avere più paura della loro mancanza o sottrazione.
La morale è presto detta: in queste settimane tutti i candidati principali si sono impegnati nei social, paradossalmente all’inseguimento di quello che pareva il campione, Beppe Grillo, che invece è uscito, andando nelle piazze e prendendoli in contropiede. Mario Monti ha inaugurato i primo question time su Twitter. Bersani ha guadagnato la prima posizione come reputation online. Persino Berlusconi, poco avvezzo a questi sistemi, ha inaugurato un nuovo profilo e investito nei social media.
Da lunedì, sarà interessante controllare lo stato della presenza online dei candidati e monitorarne l’attività. Si accettano scommesse su forti disaffezioni e qualche repentina sparizione.