Quello che diamo ai vari 23andMe, deCode & C. è soltanto saliva. Mera saliva. Un tubetto, uno sputo. Quello che tali aziende ne ricavano, non sono fatti nostri. Il ritorno è in una digitalizzazione del nostro genoma, una rappresentazione interpretata.
La nostra saliva, però, è ancora saliva. Avendo effettuato l’esame 23andMe possiamo certificare come questa precisa azienda sveli, all’interno delle clausole di accettazione dell’esame, il fatto che una volta sputato nel tubetto, quest’ultimo non può più essere origine di pretesa alcuna al di fuori dei dati in arrivo.
L’esame del DNA, infatti, chiude ogni rapporto con il proprio campioncino liquido. Da questo punto in poi:
- il DNA rimarrà nel database dell’azienda e sarà accessibile dai dipendenti autorizzati
- il DNA sarà utilizzato per ricerche scientifiche autorizzate da ricercatori che pagheranno per poter accedere ai dati che abbiamo concesso “in licenza” alla 23andMe
- sul DNA lucrerà l’azienda che lo analizza, non certo chi lo fornisce. Una volta prodotto il campione, ogni altro diritto conseguente è annullato.
Produciamo saliva, loro la raffinano e ci guadagnano su. Non c’è nulla di male, tutto è trasparente, basta mettere le cose in chiaro fin da subito. E nella licenza la cosa è oltremodo chiara.
Tale precisazione è doverosa alla luce degli altri post sull’argomento. Perchè occorre partire di qui per riflettere sul concetto di tutela della privacy, occorre partire dal processo di creazione delle informazioni; dalla loro conservazione; dalla loro natura.