Se c’è una eredità dell’ultimo State of the Net è quella di una serie di domande sugli algoritmi: che ruolo hanno nell’economia e nella società? Cosa comportano nella loro relazione con l’umano? Cosa stanno organizzando le tecnologie decisionali? Siamo davvero contenti di questo? Una possibile soluzione, più politica che tecnologica, è quella che ha concluso la giornata milanese e che riprende concetti antichi quanto la rete stessa: per essere al sicuro nell’era della burocrazia degli algoritmi forse si potrebbe eliminare quella burocrazia.
La riflessione va oltre l’applicazione strumentale della “forza bruta” dell’algoritmo: Eni ne ha data una forte dimostrazione all’interno del proprio speech, ma la partnership del gruppo con l’appuntamento State of the Net ha voluto sublimare soprattutto l’argomento nella sua complessità. L’algoritmo è un modo di pensare e di intendere le cose del mondo, ha una valenza filosofica prima ancora che matematica.
Nient’affatto facile, eppure anche affascinante, aver potuto ascoltare Vinay Gupta, un vero cypherpunk, famoso tra le altre cose per Ethereum, una piattaforma di contratti intelligenti, l’evoluzione del pensiero che da almeno trent’anni caratterizza questa generazione di pensatori della rete che ha individuato nella crittografia e nel sistema distribuito di database una possibile e sognata fuga dallo Stato. Una visione anarcoide, senza dubbio, ma che ha trovato ottima sede al #sotn15 perché i vantaggi principali di un blockchain toccano sorprendentemente molti temi della società degli algoritmi.
Listen to State of the net – blockchain vs bureaucrats on #SoundCloudhttps://t.co/0Q4ctGcFkx
— Vinay (@leashless) October 5, 2015
Gupta, come David Orban prima di lui, e anche Euan Semple e Lee Bryant, hanno tenuto una tavola rotonda finale che vale lo sforzo di ascolto e comprensione come si trattasse di una lezione universitaria su come affrontare il dilemma: moriremo di algoritmi o ci sono altre vie? I presupposti sono abbastanza noti, almeno a quella parte di opinione pubblica più attenta. Gli algoritmi sono indispensabili al funzionamento di quasi tutto quello che è stato portato da Internet verso il web: i motori di ricerca, i social network, l’Internet of Things, le assicurazioni, la sanità, le decisioni strategiche, la finanza. Sempre più decisioni sono prese da strumenti matematici opachi, spesso di proprietà di aziende private, costruiti secondo criteri privi di un approfondimento morale.
Ci sono poche soluzioni, per la precisione tre. Lasciare che tutto resti com’è, elaborare una “ingegneria della morale” (come la definisce Orban) che impronti ogni algoritmo di una sensibilità collettiva esattamente come in politica si fanno le leggi; hackerare la burocrazia con l’architettura a catena di un blockchain, sperimentando il più possibile delle soluzioni per poi scalarle. Quella del blockchain è una provocazione che nasce dai vantaggi oggettivi che comporta: i nodi in questo network convergono in modo efficiente e controllato verso un insieme di dati in modo che è possibile persino gestire il registro dei Bitcoin, questo grazie al livello di ragionevole di certezza con cui decide se una transazione esiste nel set di dati confermati ed è valida. Ma la crittomoneta è solo una piccola parte di cosa può fare un blockchain, che è in sostanza questione di fiducia.
La fiducia delle persone
Esiste una corrente di pensiero che considera questa architettura come un’altra classe di collegamenti di Internet per gestire in modo decentralizzato qualunque tipo di scambio, transazione, registro, in settori come la finanza e anche le decisioni politiche. Proprio quello che fanno gli algoritmi, senza di noi. Una cosa troppo nerd? Può darsi, ma in fondo la sharing economy ha dimostrato la straordinaria fiducia delle persone quando c’è di mezzo la tecnologia. Pochi si farebbero ospitare in casa di sconosciuti, eppure molti usano AirBnB. Quasi nessuno si farebbe scorazzare in auto da qualcuno che non lo fa di mestiere, a meno che non sia Uber. Per quale ragione?
Il motivo sembra essere l’altissimo grado di fiducia che questi sistemi infondono nei loro utenti, probabilmente per il meccanismo di controllo distribuito e per la fascinazione della tecnologia stessa. Ecco allora la chance che un blockchain ha di spostare questo livello di fiducia in un network che aumenti la trasparenza in senso iperdemocratico come inteso da Gupta: leggi che sono comprensibili, sessioni aperte, nomi di chi prende decisioni, analisi pubblica dei fatti, decisioni prese dopo l’apprendimento dei fatti.