Chi vede in Spotify e nei servizi musicali in streaming il futuro della musica rischia di avere più di qualche dubbio dopo aver visto quello che sta succedendo in Inghilterra. Oltremanica sta infatti montando un’inaspettata quanto pericolosa polemica che vede protagonista proprio Spotify, finito nel mirino di alcune etichette e di alcuni distributori indipendenti a causa dei bassissimi ricavi assicurati a fronte della cessione dei rispettivi cataloghi.
A far discutere è stata soprattutto la colorita uscita di Jon Hopkins, produttore e musicista noto in Gran Bretagna per aver collaborato anche con i Coldplay e Brian Eno. In uno sfogo su Twitter Hopkins ha attaccato senza mezzi termini Spotify, specificando di aver ricevuto compensi molto bassi per ogni passaggio dei propri brani:
Mi hanno pagato 8 sterline per 90.000 passaggi. ******* Spotify.
Per meglio chiarire la portata dei compensi assicurati dal servizio di streaming musicale, Hopkins ha aggiunto poi che ogni passaggio di un suo brano su BBC Radio 1 (il primo canale radiofonico dell’emittente pubblica BBC, nonché una delle radio più seguite in Gran Bretagna) gli vengono corrisposte ben 50 sterline, con una differenza che effettivamente è abissale rispetto a quanto assicuratogli da Spotify.
La presa di posizione di Hopkins ha dato slancio alle proteste di altri personaggi del mondo radiofonico e musicale inglese, a iniziare dal conduttore Stuart Miller, che ha ancora una volta chiamato in causa BBC Radio 1 per fare il paragone con Spotify:
Questa storia di Spotify è tutta uno scherzo. Io faccio dance, e se Radio 1 suona 6 minuti della mia musica ricevo circa 120 sterline dalla PRS.
Non stupisce quindi che nella terra dei Beatles artisti come i Coldplay, Adele e Tom Waits si siano rifiutati di concedere i diritti per la diffusione dei loro album a Spotify, causando al servizio la mancanza in catalogo di produzioni musicali molto richieste presso il pubblico.
Se il fronte degli artisti e dei produttori musicali sembra mettersi quindi contro Spotify, a difendere la piattaforma scandinava sono i discografici collegati alle major musicali, i quali hanno detto di ritenere normale che lo streaming non potrà mai rimpiazzare economicamente le vendite delle canzoni, ma va visto al tempo stesso come una soluzione utile per rendere meno evidenti i danni subiti dalla pirateria, suggerendo agli artisti di accontentarsi di ricevere un compenso minimo dai servizi di streaming invece che non ottenere nulla dal download illegale. Ha spiegato infatti Jamie Vaide:
Lo streaming non potrà mai rimpiazzare le vendite come fonte principale di ricavi. Il problema è che molti rubano, invece di comprare… E dunque credo che il vantaggio per gli artisti consista nel ricevere qualcosa da Spotify invece del nulla che ottengono dal download illegale.
In questo contesto di forte contrapposizione spicca la voce dell’editore Sentric, che ha attaccato a sua volta Miller dicendo:
Certo, incassa 120 sterline per sei minuti di programmazione su Radio 1. Ma questo avviene perché la ascoltano 8 milioni di persone; se ricevesse 8 milioni di stream su Spotify guadagnerebbe più di 120 sterline in royalty… Spotify è una buona cosa per gli artisti e per l’industria musicale.
La posizione di Sendric appare effettivamente la più ragionevole e sembra aver centrato il punto della questione: nel fare ogni tipo di valutazione non si può prescindere dal numero e dal tipo di pubblico che ogni media è in grado di raggiungere, perché paragonare un servizio ancora per certi versi sconosciuto al grande pubblico come Spotify alla radio, per giunta a un grande network attivo da diversi decenni e conosciuto come la radio della BBC, appare quanto meno un’operazione impropria, frutto di una visione troppo generalizzante che tenderebbe a pretendere lo stesso trattamento economico da chi può contare su poche migliaia di utenti così come da chi ha milioni di ascoltatori.