È lo streaming a trainare l’industria discografica: non più il download di brani e album in formato digitale, che per un periodo ha soppiantato il supporto fisico, ma l’ascolto illimitato di canzoni da piattaforme online. Tra queste spicca il nome di Spotify, colosso di un settore in costante crescita, che nonostante i numeri da record sembra ancora faticare a garantire ampi margini di profitto.
Il servizio ha incassato oltre 2 miliardi di dollari lo scorso anno, quasi la metà dei 4,5 miliardi generati dall’intero settore dello streaming musicale. Ciò nonostante, al termine del 2015 la società ha chiuso i propri bilanci con un passivo pari a 200 milioni di dollari. I motivi sono da ricercare nell’elevata percentuale (più dell’80%) degli introiti che finiscono nelle casse delle etichette e dei singoli artisti, una spesa obbligatoria per garantirsi le licenze necessarie alla trasmissione dei brani. Per risollevare la situazione è stato chiamato Shiva Rajaraman, ex capo della divisione Consumer Experience di YouTube.
Una delle strade percorse per generare utili maggiori è quella che ha già portato al lancio di contenuti esclusivi come le interviste ai musicisti. In futuro potrebbero arrivare anche registrazioni dei backstage, performance live e documentari. Inoltre, la società ha acquisito The Echo Nest per il perfezionamento degli algoritmi che identificano i gusti personali degli utenti, fornendo loro playlist create ad hoc. Queste le parole di Rajaraman.
Una delle cose che stiamo cercando di fare è semplificare Spotify, così che la piattaforma possa compiere gran parte del lavoro al vostro posto.
Dei 75 milioni di iscritti a Spotify, meno della metà (circa 30 milioni) ha scelto un abbonamento premium a pagamento. Gli altri si affidano alla formula free, in cui l’ascolto dei brani è intramezzato da inserzioni pubblicitarie. Per il suo futuro, la piattaforma potrebbe fare leva su un tale bacino di utenti per strappare accordi più vantaggiosi con major ed etichette indipendenti.