Il PEW research, uno degli istituti di analisi dei media più importanti al mondo, ha pubblicato il tradizionale rapporto sull’anno passato. Una fotografia molto dettagliata dello stato dell’informazione americana che spesso anticipa di qualche anno i fenomeni che si potranno osservare anche nel vecchio continente. Un sito speciale dai contenuti ricchissimi, che richiedono giorni di studio, ma del quale purtroppo è facilmente comprensibile la conclusione: l’informazione è in coma.
Basta guardare l’infografica o leggere il comunicato stampa per allarmarsi quanto chi ha analizzato numeri su numeri: un terzo degli americani ha abbandonato le news tradizionali perché le ritiene di cattiva qualità.
La questione è legata al tipico effetto retroattivo di un circolo vizioso: l’informazione è in crisi per il crollo della pubblicità, la crisi costringe a tagli sul personale che peggiora la qualità, il peggioramento della qualità diminuisce i lettori, la diminuzione dei lettori fa crollare la pubblicità, che peggiora la crisi.
Le stime dei tagli prevedono l’occupazione dell’industria delle news in calo del 30% dal suo picco nel 2000 e scenderà sotto i 40.000 dipendenti per la prima volta dal 1978. Nelle televisioni locali, il cui pubblico è in forte calo in ogni fascia oraria chiave, le notizie si sono ridotte in lunghezza e rispetto al 2005 la copertura sul governo è stata tagliata della metà, mentre sport, meteo e traffico ora rappresentano il 40% dei contenuti. Per la tivù via cavo, la copertura di eventi dal vivo durante il giorno, che spesso richiede equipaggio e corrispondente, è scesa del 30% dal 2007 al 2012, mentre i segmenti di interviste sono aumentati del 31%.
Lo studio affronta numerosi casi e aspetti di questo stravolgimento dell’informazione, e dedica una sezione speciale anche al digitale. Dove i social media si prendono il posto in prima fila, ma non è per forza una buona notizia per l’industria.
I social media e l’informazione
Che il web 2.0 rivesta ormai un ruolo fondamentale per la distribuzione delle notizie è ormai chiaro. Twitter, 59 milioni di utenti, è molto consapevole di essere diventato – quasi suo malgrado – la risposta più credibile al servizio di Google News, mentre Facebook (167 milioni di utenti) ha deciso di rinnovare il feed delle Notizie proprio per sfruttarlo come fosse un net-magazine personalizzato.
I dati sono altrettanto chiari: attualmente ci sono quasi 200 società editoriali che hanno puntato tutto sui social network eliminando ogni altra versione della propria testata giornalistica; il 19% degli americani legge notizie su un social network ogni giorno, nel 2010 erano il 9%, e l’accelerazione non riguarda soltanto i giovani. Circa il 34% di quelli tra i 18 e i 24 anni leggono notizie esclusivamente su un sito di social network e così ha fatto il 30% dei 30-39enni, quasi il doppio rispetto a soli due anni fa. Questa crescita è peraltro dovuta anche agli smartphone, che rivestono un ruolo determinante nella crescita dei flussi: il 47% del totale.
I principali siti di informazione ricevono dai social una quota sempre più importante di visite, circa il 10%, anche se i motori di ricerca sono ancora lontani. Tuttavia questa percentuale è in grado già ora di modificare profondamente l’economia dell’informazione, dato che l’intermediazione è sempre una questione di soldi (basti pensare alle polemiche su Google News in Francia). Le interazioni sempre più forti stanno creando una economia parallela di cui i produttori di contenuto – i media – non riescono a godere.
Tra i 50 siti di informazione con più storie engaged (cioè condivise da almeno 100 utenti di Facebook) scopriamo che l’Huffington Post ne ha realizzate quasi il doppio del Daily Mail e testate gloriose come BBC, NYT o CNN vengono dopo Yahoo!. Questo significa che essendo meno nativo il flusso e anche l’interesse dei lettori, i social media stanno guadagnando utenti senza che questo comporti un miglioramento dell’industria dell’informazione, che non vede salire gli introiti pubblicitari.
Ma c’è un altro punto di vista, più positivo. Dopo i primi problemi avuti con le storie sponsorizzate, che non piacciono agli utenti e non hanno aiutato i giornalisti a sfruttare l’iscrizione alle loro pagine per pubblicizzare i loro pezzi grazie agli algoritmi, Facebook sta facilitando la possibilità di tenere traccia dei messaggi dei giornalisti che gli utenti vogliono seguire. Anche il Graph Search può essere visto come uno strumento giornalistico molto potente, non ortodosso, come ogni funzione di ricerca estesa in un social dove i media devono assolutamente imparare a farsi notare.
Lo studio del PEW è interessato anche al reporting immediato sempre più a portata di mano grazie agli smartphone e ad applicazioni video e per Twitter che ne permettono l’immediata pubblicazione. Un citizen journalism sul quale punta da anni.
Questi due social non sono comunque gli unici. Gli editori impiegano con successo crescente anche Pinterest (il Wall Street Journal lo usa per evidenziare la grafica), oppure Instagram: il Time l’ha utilizzato in modo spettacolare in occasione dell’uragano Sandy. Così come i giornalisti hanno imparato ad usare Google Plus: gli hangout sono uno strumento utile, e la condivisione dei contenuti aiuta l’indicizzazione sul motore di ricerca.
La sensazione generale, tuttavia, è che l’economia dell’informazione digitale, intermediata dai social, non riesca a sostituire quella precedente, provocando un buco finanziario dalle conseguenze disastrose. Cambiando così tanto il mercato della pubblicità online, si fanno avanti nuove forme di consumo giornalistico – prima di tutto il paywall – e di giornalismo stesso, come il brand journalism, che però solleva problemi etici molto sensibili e può minare la credibilità dei media. Tornando al punto di prima.