Quest’oggi intervistiamo Stefano Mizzella, dottorando presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca in Società dell’Informazione Progetto QUA_SI (Quality of Life in the Information Society)
Si occupa di “New Media Literacy” e svolge la sua attività di ricerca all’interno di “NuMedia BiOs” (Osservatorio Nuovi Media) e di “Bi.cromi” (Bicocca Creative Research On Media Literacy).
Collabora attualmente con l’Universita di Roma “La Sapienza” e con lo IULM di Milano.
E` tra gli organizzatori del Social Media Lab.
Noi di Webnews lo abbiamo intervistato chiedendogli di approfondire il rapporto tra tecnologie e didattica 2.0.
Veniamo alle domande.
Abbiamo più volte parlato – in questa sede – di servizi 2.0 nati a stretto contatto con la didattica e l’ambito della formazione/educazione (Studeous, TeachToday, MIT, Federica, etc) tu come ti poni nei confronti della questione? Quali pensi che siano ? se ne vedi – i fattori di forza delle applicazioni 2.0 in ambito accademico?
Credo che i punti di forza delle applicazioni a cui fai riferimento risiedano principalmente in un’inedita possibilità di condividere informazioni, sapere e conoscenza secondo modalità orizzontali e bidirezionali. Parlo di orizzontalità e di bidirezionalità perché l’innovazione fornita da queste piattaforme è a vantaggio sia dei docenti che degli studenti, con il risultato di creare nuove e proficue sinergie per ciò che riguarda la ricerca e l’apprendimento.
Apertura, collaborazione, condivisione e partecipazione sono alcuni dei principali concetti alla base del Web 2.0. Questi stessi concetti non possono non riguardare anche la didattica, l’educazione e la formazione più in generale.
Sempre più spesso si parla di Società della Conoscenza come naturale evoluzione della Società dell’Informazione. Se un nuovo ordinamento sociale basato sulla conoscenza è possibile, di certo la conoscenza, intesa come “materia prima”, necessita di nuovi modelli di sviluppo, modelli che devono includere al proprio interno aspetti non soltanto tecnologici, ma anche economici e sociali.
Penso, in tal senso, a quanto dichiarato da Don Tapscott e Anthony D. Williams nel loro ormai celebre Wikinomics. I due autori parlano infatti dell’avvento di una “nuova era della scienza collaborativa” resa possibile proprio dalla nascita di nuove applicazioni e strumenti collaborativi online capaci di cambiare per sempre il modo in cui gli scienziati pubblicano i dati, li gestiscono e collaborano al di là dei confini istituzionali.
Purtroppo, proprio come accade per le nuove forme di “Enterprise 2.0” rispetto ai tradizionali paradigmi aziendali, ritengo sia innegabile un ritardo italiano nei confronti di questa nuova era della scienza collaborativa, o “Scienza 2.0”, come la definiscono Tapscott e Williams.
Noi abbiamo sempre messo l’accento sulla “consapevolezza” che queste risorse richiedono, sia da parte di chi le usa sia da parte di chi ne fruisce, tu come ti poni nei confronti della questione?
Individui possibili problematiche legate all’impiego di tali applicazioni in questi contesti?
La consapevolezza è un elemento fondamentale all’interno di tale scenario. Parlandoti della mia esperienza personale, posso assicurarti che se è possibile riscontrare un “digital divide” tra studenti e docenti nelle competenze richieste per l’utilizzo di simili applicazioni, sono proprio questi ultimi, i docenti, a manifestare le problematiche maggiori.
Ti faccio un esempio: quanti professori che si occupano di nuovi media o si dichiarano esperti di tecnologie digitali possiedono anche un loro blog personale dimostrando una certa dimestichezza nel gestire le più comuni piattaforme on line? Quelli che conosco io sinceramente si contano sulla punta delle dita.
Questo per dirti che a mio parere qualsiasi cambiamento si voglia apportare all’interno della formazione, parlo sia a livello scolastico che accademico, questo dovrebbe essere fatto per andare incontro alle esigenze e alle abitudini dei cosiddetti digital natives. Al contrario, alcune volte mi sembra che si chieda alle generazioni più giovani di “abituarsi” agli standard comunicativi ormai obsoleti delle generazioni precedenti, e ritengo che questo sia un atteggiamento assolutamente erroneo.
Tornando alla collaborazione e alla partecipazione, il modello di Wikipedia, come sappiamo tutti, propone un innovativo processo di co-creazione del sapere, un processo che quindi assume ancora maggiore legittimazione all’interno di un contesto come quello accademico, da sempre improntato alla produzione e alla diffusione di conoscenza.
In tal senso non è un caso se uno dei principali progetti derivati da Wikipedia sia proprio Wikiversity, che si propone di funzionare come aggregatore libero di contenuti scientifici basato sul principio della “Wiki mass cooperation”.
Come riporta Paolo Ferri nel suo libro “La scuola digitale”, Wikiversity si pone come principali obiettivi quelli di:
– creare un aggregatore libero di contenuti e “learning object” (LO) multicodicali per l’apprendimento e la formazione, per tutte le età e in tutte le lingue;
– ospitare progetti di ricerca e di didattica che favoriscano la creazione di comunità che operino e lavorino all’interno di Wikiversity;
– completare il progetto Wikipedia, attraverso la creazione di una base dati qualificata di approfondimenti che permetta di costruire una serie di supporting evidences per l’attuale versione di Wikipedia.Il problema di fondo dell’ancora non altissima diffusione di Wikiversity riguarda proprio il concetto di consapevolezza su cui si basa la tua domanda. Molti docenti e ricercatori, per esempio, non sono ancora pienamente consapevoli delle possibilità offerte dalle varie licenze Creative Commons per la pubblicazione di materiale scientifico, e hanno paura di regalare agli altri le proprie ricerche senza in compenso ottenere alcun guadagno diretto.
La seconda parte dell’intervista sarà pubblicata in seguito e verterà su esempi concreti di impiego di queste tecnologie e problematiche possibili a esse connesse.