Fra i molti settori influenzati pesantemente da Internet, ai primi posti c’è la comunicazione pubblicitaria. La rete sta imponendo nuovi modelli di business, le innovazioni corrono a grande velocità, e se c’è una morale nella comunicazione odierna è che sia l’individuo che la grande azienda devono sottostare alla nuova grande rappresentazione di sé che funziona sul web. C’è una parola composta per definire questo passaggio: storytelling. A Pisa si è riflettuto sui nuovi scenari, che già conquistano social media e televisione.
Nel panel sullo storytelling all’Internet Festival di Pisa (parte della sezione “take the money” che ha ospitato startup competition, workshop sulle aziende tecnologiche, convegni sui Bitcoin e sull’advertising online) si è parlato della nuova tendenza della comunicazione digitale: quella di raccontare storie e di raccontarsi come una storia. Per una multinazionale, ma anche un’organizzazione no-profit, porsi in questo modo significa aggregare una comunità di interessi, di intenti e di clienti.
Il primo a parlarne, nel panel moderato da Giampaolo Colletti, è stato Andrea Fontana. Uno dei massimi esperti di storytelling, e docente di narrazione d’impresa all’Università di Pavia, Fontana ha partecipato poco dopo Pisa al Brandstorytelling forum a Milano, dove sono state premiate le migliori campagne (hanno vinto Fastweb con il progetto “Vision (R)evolution” , Barilla per la creatività visiva e Senzani Brevetti grazie al progetto “Proteggere la Storia” per l’emozionalità narrativa), altra occasione nella quale ha raccomandato il principio secondo il quale storytelling è prima di tutto rappresentazione. Nel panel di Pisa ha iniziato il suo intervento con delle slide che hanno chiarito alcuni aspetti chiave e la loro successione: senza uno script, la costruzione dell’idea, il design, la pianificazione, l’esecuzione e la cura transmediale, insieme a un budget adeguato, non si va da nessuna parte. Purtroppo, tutti pensano di fare storytelling e che basti poco:
In realtà è un termine abusato, confuso col raccontare delle storielle. Invece lo storytelling è rappresentare coerentemente attraverso racconti, creare un immaginario che allinei comunicazione interna ed esterna in un mondo appositamente realizzato. Si deve partire da un’idea e arrivare a un capitale narrativo da sfruttare in questo nuovo mondo immaginario.
#BStory14 And The Winner is? Complimenti a Fastweb per le iniziative di corporate #storytelling @ExecutiveMARPI pic.twitter.com/2f018C7Irl
— Andrea Fontana (@storyfactor) October 15, 2014
Testimonianza importante quella di Daniele Chieffi, responsabile dell’Ufficio Stampa Web di ENI, il quale ha sottolineato il punto di vista della propria azienda, per la quale fare storytelling significa prima di tutto un esercizio di umiltà:
Per una grande azienda, vuole dire superare i confini rigidi della comunicazione top-down, mettersi in gioco, raccontare ciò che molta gente ignora, cioè cosa permette di toccare un pulsante e avere la luce o girare una manopola e avere gas, gesti banali che alcune persone dall’altra parte del mondo consentono lavorando su piattaforme in mezzo al mare, in condizioni estreme. Storie che vanno raccontate.
Da questo punto di vista, le aziende più strutturate avranno bisogno di competenze, di importare giovani comunicatori in grado di usare gli strumenti più innovativi (social e video soprattutto) per esaltare la storia umana dietro il corporate. Un modo di raccontarsi che sfida le rigidità anche della pubblica amministrazione, come ha ben illustrato Leonardo Sacchetti parlando del progetto Accenti, un clamoroso caso positivo di storytelling promosso da un ente pubblico.
Il progetto nativo, giovanisì, aveva l’unico scopo di sostenere autoimprenditorialità e indipendenza degli under 35 in Toscana, quando però si è capito che tutte quelle storie (110 mila) avevano un potenziale, si è creata una piattaforma per raccogliere le migliori. Risultato: un video virale, un libro, una eccezionale esposizione mediatica del progetto e di chi l’ha condotto.
Anche Stefania Milo, responsabile nazionale della Cna giovani, ha capito che la percezione media degli artigiani iscritti all’associazione andava aggiornata, raccontando le vere storie di chi oggi lavora con le mani. Così è nato un progetto originale e a bassissimo costo di “phototelling”, CnaNext: un blog con foto Instagram e breve descrizione delle miriadi di idee geniali degli artigiani di oggi negli ambiti del riutilizzo, dell’innovazione del prodotto.
Insomma, un po’ di ottimismo, come raccomanda anche Daniel Tarozzi, che da quando è sceso dal camper col quale ha attraverso il paese in cerca di persone che ce l’hanno fatta non solo è arrivato alla conclusione che i media non raccontano altro che la crisi finendo per peggiorarla, ma che andava raccontato tutto quanto restava escluso. Italiachecambia.org è nata proprio per questo scopo, anche in questo caso, come in Accenti e in altre piattaforme, il valore aggiunto sono le storie e l’effetto prodotto nel loro complesso, come in un puzzle che produce una immagine più bella di quella realizzabile sommando virtualmente i suoi pezzi.
Bisogna usare la testa ma anche essere un po’ matti. Giampiero Cito, pubblicitario, autore del libro
Italia caput mundi, un viaggio nella penisola alla ricerca dei “mad in Italy”: gente abbastanza folle per credere ancora nel loro paese, che ha consentito di far emergere una leadership naturale ancora esistente. Un progetto di comunicazione che ha fatto guadagnare ai suoi ideatori 500 pagine di rassegna stampa.
È certamente vero che l’Italia è in difficoltà, ma da pubblicitario posso assicurare che il punto di vista più bello per raccontare una guerra è quello di Achille, non perché un grande eroe, ma perché ha un lato debole pur nella sua forza. L’Italia è prima al mondo in 250 prodotti, e al secondo e terzo per altri 750. In una ipotetica Olimpiade del manifatturiero, andrebbe per mille volte sul podio.