Le major fuggono, i servizi per la distribuzione di contenuti musicali in streaming rispondono: dopo l’abbandono da parte di oltre 200 etichette musicali in seguito alle richieste da parte dei propri clienti causata da scarsi ricavi provenienti dal settore, infatti, MOG, Rdio e Spotify fanno il punto della situazione puntando il dito contro le stesse major.
Secondo David Hyman, CEO di MOG, la colpa del crollo del ritorno economico proveniente dalla distribuzione di musica in abbonamento via web non sarebbe legata tanto al sistema stesso, quanto piuttosto agli accordi stretti tra le label e gli artisti: se questi ultimi non ricevono somme sufficienti da ritenere conveniente la propria presenza nei vari servizi attivi del settore, dunque, il tutto sarebbe dovuto al modus operandi delle major e non ad un minore afflusso economico.
Hyman, insieme al CEO di Rdio, ha poi evidenziato come la presenza dei rispettivi servizi, così come di altri appartenenti allo stesso settore, abbia favorito la riduzione del fenomeno della pirateria digitale, spingendo molti utenti (soprattutto tra i più giovani) ad acquistare musica in abbonamento piuttosto che scaricare interi album dagli strumenti di file sharing. Altro punto in favore di tali servizi sarebbe la presenza delle principali major (Sony ed Universal su tutte), le quali hanno sottoscritto gli stessi contratti siglati dalle etichette che hanno deciso di abbandonare lo streaming online, senza tuttavia mai lamentarsi di quanto ricavato dal settore: la colpa, sostiene Hyman, probabilmente è della scarsa qualità degli artisti che non riescono dunque a vendere un numero sufficiente di brani da poter ritenere prolifero il mondo dello streaming musicale.
Un confronto con i numeri registrati da iTunes permette poi ai vari gestori di poter fornire alle etichette musicali numeri importanti: in media ogni utente spende sul servizio di Cupertino circa 40 dollari all’anno, ovvero poco più di 3 dollari al mese, mentre gli abbonamenti dei vari Rdio, MOG e Spotify partono da una quota minima di 6 dollari al mese. Mediamente, dunque, questi ultimi sono in grado di fornire agli artisti proventi economici maggiori rispetti a quelli derivanti dalla vendita di singoli brani o album.