La battaglia della webtax continua in Rete e due dei suoi principali protagonisti si sono incontrati negli studi del FattoQuotidiano per una piccola resa dei conti. Alle 14.30, in diretta streaming, Francesco Boccia e Guido Scorza hanno parlato, moderati dal giornalista Stefano Feltri, di una delle proposte più discusse degli ultimi tempi. Il primo, fautore di un emendamento che obbliga la partita iva nazionale a chi vende pubblicità online, il secondo, avvocato esperto di web, furiosamente critico verso questa idea, che non ha mancato di definire sbagliata e persino illegale.
I toni della discussione, però, si sono fatti molto più costruttivi rispetto alle ultime prese di posizioni di Scorza, il quale ha subìto il colpo della descrizione lucida che Boccia, presidente della Commissione Bilancio, ha fatto dell’attuale situazione di «disgregamento della catena del valore». Argomento difficile da smentire: l’economia sta cambiando radicalmente e non c’è modo assolutamente di stare a guardare senza causare danni enormi ai conti degli stati che ospitano queste multinazionali. Come ha ribadito di recente anche la responsabile europea dell’agenda digitale, Neelie Kroes, con una dichiarazione che Boccia ha letto in studio:
Le compagnie multimiliardarie non possono continuare a versare al fisco solo le briciole. Nella Ue ci sono molte persone che soffrono in questo momento e grandi deficit pubblici. Le aziende americane dovrebbero capire che essere buoni cittadini nella Ue è incompatibile con un’evasione fiscale su larga scala.
Cause contro metodi
Più della metà dei 45 minuti del dibattito sono stati dedicati a questo problema, che anche a seguito della discussione resta però sospeso: partendo dall’assunto che sono tutti d’accordo, il problema dell’elusione esiste, la legge di iniziativa parlamentare che sta andando dritta verso l’approvazione è la soluzione?
Secondo Scorza, ovviamente, no:
Avevamo una grande occasione, quella del semestre europeo, per mettere sul tavolo l’argomento da una posizione diversa da quella dove siamo finiti ora. L’Italia verrà percepita come paese poco friendly rispetto alla Rete: nel giro di una settimana abbiamo assistito a leggi che cambiano il fisco senza preoccuparsi dell’Europa, al regolamento Agcom, alla tassa sull’equo compenso e a molto altro.
Boccia, però, ha lasciato intendere che la webtax è una specie di «pistola sul tavolo» (definizione di Feltri):
Forse non si è capito che il provvedimento, così com’è, fornisce lo strumento di ruling, cioè apre una trattativa con queste aziende. Io non voglio parlare solo di Google, perché non è vero che si tratta di una legge solo su Google, ma prima di questa proposta non avevano mai accettato di trattare. Vorrei ricordare che la Guardia di finanza sta tentando di farsi restituire un miliardo da Apple, ad esempio, e il magistrato a capo delle indagini è Francesco Greco: il più preparato magistrato in Italia sui reati finanziari.
Il rapporto con l’Europa: sovranità oppure infrazione?
Il rapporto con l’Europa è al centro del dibattito. Il principale argomento contro la webtax (si continua a chiamarla così per comodità giornalistica, anche se non è una tassa e non riguarda il Web nella sua interezza) è che sembra destinata a causare una infrazione per violazione delle norme sulla libera circolazione di beni e servizi. Ci sono tutti i presupposti, considerando anche i seri dubbi appena espressi dal commissario Algirdas Semeta. E qui la prima sorprendente affermazione di Boccia, che smentisce questo scenario. Sulla base di un paradosso interessante: ma se è possibile il caso Irlanda, perché non dovrebbe esistere un caso Italia? Dov’è l’Europa?
Si tratta di una norma fiscale, argomento sul quale abbiamo piena sovranità fino a prova contraria. Per l’azienda che acquista non cambia nulla, prima riceveva fattura da un’azienda in Irlanda, poi la riceverà da una partita iva italiana. Serve allo Stato per tracciare il pagamento, per il consumer non cambia nulla. Non vìola il trattato.
Qui Scorza è intervenuto sottolineando però il famoso paradosso delle 27 partite iva. Se per vendere un servizio bisogna aprire la partita iva e «ciascun paese adottasse norma omologa, si avrebbe una moltiplicazione di burocrazia». In questo caso, lo scenario prospettato si scontra con la visione molto concreta dei proponenti. Boccia, infatti, a un tweet di una società italiana che vende servizi all’estero, così risponde:
Se invece di pubblicità stessimo parlando di bulloni, la cosa non desterebbe alcun problema. E sapete perché? Perché è già così.
Da gennaio cosa accadrà?
Stando così le cose, la webtax potrebbe essere legge dello Stato a metà gennaio. Se così fosse, la curiosità è capire che effetti potrebbe avere. Per Boccia, il primo effetto saranno 130 milioni di euro:
È la cifra che sappiamo già, per certo, che arriverà dal ruling, il percorso di trattativa tra Agenzia delle Entrate e aziende. Le web company non rinunceranno al mercato italiano, è una preoccupazione assurda.
Assai meno ottimista Scorza, che continua a credere ci sarà una procedura di infrazione e che la mancata comunicazione del progetto di legge alla Commissione Europea darà problemi e potrebbe portare a un nulla di fatto.
E se la webtax fosse solo un grimaldello?
La sensazione, dopo aver ascoltato il dibattito, è che la questione advertising e partita iva sia solo l’aspetto esteriore del provvedimento. Ormai hanno compreso in tanti che non può portare molto denaro nelle casse, dunque perché è così importante? Nelle parole di Boccia si intuisce il vero obiettivo, che è quello di costringere Google, Facebook (in particolare) e le web company a trattare con lo Stato e l’Agenzia delle Entrate sui loro profitti già realizzati, non quelli futuri. Secondo obiettivo, andare in Europa lasciando un segno, una traccia che acceleri il percorso individuato a Bruxelles nel lontano 2006 per armonizzare il fisco continentale. Insomma, una simulazione ben orchestrata o meglio una sciarada, nella quale l’unione di più termini – iva, ruling, imposte sui consumi, sul reddito – crea qualcosa di nuovo.