È durata poco più di un mese la presenza di Travis Kalanick alla corte di Donald Trump. Il numero uno di Uber, in seguito all’elezione del presidente USA, era stato nominato consigliere per gli affari economici dal nuovo inquilino della Casa Bianca. In questi giorni le dimissioni, formali, annunciate in seguito ad un incontro con i suoi dipendenti andato in scena a San Francisco e poi diramate dalla stampa d’oltreoceano.
Il momento non è dei più semplici per il colosso del ride sharing: la scorsa settimana è montata la protesta al grido #DeleteUber, poiché l’azienda è stata accusata di generare profitti dalle corse verso l’aeroporto di New York durante le manifestazioni contro il blocco dell’immigrazione firmato da Trump. Nella giornata di martedì sono poi emersi malumori interni alla società, con domande dirette rivolte a Kalanick in occasione del meeting: “Cos’altro serve per farti lasciare il ruolo di consigliere?”. La risposta è contenuta in un’email inviata dal CEO a tutto il personale di Uber, in cui si annuncia la decisione.
Ci sono molti modi attraverso i quali continueremo a difendere un cambiamento giusto per quanto riguarda l’immigrazione e ottenere un posto nel consiglio era uno di questi.
Nel frattempo, la campagna #DeleteUber ha dato i suoi effetti: oltre 200.000 utenti hanno cancellato il proprio account, lanciando così un segnale forte e deciso. Il dietrofront di Kalanick, in qualche modo, fotografa l’imbarazzo della Silicon Valley nei confronti della nuova amministrazione USA: da una parte i giganti hi-tech hanno l’esigenza di stringere rapporti con la presidenza Trump per favorire la crescita del proprio business, dall’altra devono invece fare i conti con un’opinione pubblica in gran parte scontenta o preoccupata per la nuova linea di chiusura assunta dalla Casa Bianca. Da segnalare infine che Elon Musk (Tesla, SpaceX, Hyperloop) continua a essere consigliere del tycoon, almeno per il momento.