La legge delega sulla riforma del codice di procedura penale sta aprendo nuovi fronti sul tema dei captatori informatici. Questi software-spia che da anni sono nella cassetta degli attrezzi degli inquirenti hanno bisogno di un inquadramento legislativo, ma nel testo unico approvato dal Senato e consegnato alla Camera si arriva a una estensione del loro utilizzo che contrasta con le sensibilità più volte espresse dai politici stessi quando si abusa delle intercettazioni.
I captatori informatici sono finiti già da due anni negli gangli della discussione parlamentare, con i gruppi che hanno scelto la via della delega al governo perché si occupi di alcune questioni con un decreto legislativo che porta la firma del Guardasigilli. Questo disegno di legge sulle modifiche al codice penale e di procedura penale (pdf) ha riunito una quantità colossale di testi diversi ed emendamenti ed è stato consegnato in marzo alle commissioni della Camera, le quali il 17 maggio hanno concluso il loro iter. Da ieri, quindi, il testo è pronto per la discussione in Assemblea, che avverrà con tutta la calma del caso. Almeno si spera, perché nel testo ci sono due concetti che nelle discussioni aperte tra politica e tecnica erano stati eliminati: estensione dei reati e contractor esterni nella gestione e non solo nell’acquisto di queste armi terribilmente invasive.
Quindi più trojan per tutti? Se lo chiede l’avvocato Francesco Paolo Micozzi sui social, lui che sui captatori e loro giurisprudenza oltre ad essere un grande esperto da tempo avverte dell’incompatibilità di questi strumenti col giusto processo. Un suo collega altrettanto noto, Carlo Blengino, ha tuonato con un articolo di suo pugno sostenendo che in Parlamento «non sanno cosa stanno approvando e non sanno tutelare i cittadini, compresi loro stessi». Effettivamente, la lettera (e) del comma 84 del testo di legge prende tutto il lavoro fatto con la proposta di legge di Quintarelli e lo butta via: non ci si preoccupa di limitare i reati a quelli di criminalità organizzata e terrorismo, ma si estende a molti altri tipi di reati per i quali sarà necessaria (contentino) la specificazione nell’autorizzazione del giudice; non ci si preoccupa di creare un archivio centrale di questi software per loro acquisto, omologazione ed aggiornamento, né si parla di codici sorgenti; non si avverte neppure una particolare sensibilità per garantire una certa robustezza a tutta la filiera ai fini della immodificabilità della prova raccolta. Manca, insomma, lo spirito innovativo che ha sempre considerato il captatore un mezzo non ordinario di acquisizione della prova, che per estensibilità delle funzioni è capace di tutto: perquisire, intercettare, ispezionare. E quando una legge delega non è più che dettagliata, è un problema.
Discussione aperta
Il governo si appresta a fare una legge grazie alla quale le procure avranno mezzi simili a WannaCry? No, naturalmente. La discussione è ancora aperta ed è probabile che non si arriverà mai a concedere alla magistratura italiana di captare ogni conversazione, in qualunque luogo, per qualunque reato, trasformando una intercettazione ambientale comunemente intesa in un grande occhio e orecchio onnipresente, dato che farebbe scintille con le maggiori garanzie previste per le tecniche analogiche. Tuttavia, come capita sempre con queste proposte di legge, è un segnale chiaro di doppia morale della classe politica italiana: da un lato, si scandalizza per la pubblicazione di intercettazioni telefoniche e l’incapacità delle procure di salvaguardarle; dall’altro, non resiste dal fornire strumenti molto potenti di invasione della vita privata delle persone, per pura miopia, pensando che non li riguardi ma che sia soltanto lotta al crimine. Invece è un errore, come sottolineato anche da Privacy International: quando non c’è proporzionalità si restringe pericolosamente il controllo democratico su questi software che hanno la natura di vere e proprie armi e sono protagonisti di mercati molto opachi.