Sembra proprio che la metafora più idonea per raccontare la cosiddetta Gig economy sia quella di un grande videogioco sperimentato massivamente sui lavoratori. Stando a una inchiesta del NYT su Uber, infatti, al di là dell’impegno preso dalla società californiana a trattare più umanamente i suoi clienti-lavoratori (i driver dei servizi di ride sharing figurano come autonomi) pare che dietro le quinte sia impegnata in un incredibile programma di induzione di comportamenti tramite le conoscenze portate in dote dalla ricerca sociale, dalla psicologia, già usate nei videogiochi.
Una specie di combinazione di neo-taylorismo e behavioral economics: il lavoro del NYT sul metodo adottato per incentivare l’uso della piattaforma da parte dei suoi driver, sui quali formalmente non avrebbe controllo, è un esempio di straordinario giornalismo di approfondimento nel settore tecnologico, corredato persino da una divertente grafica animata. L’articolo va letto con attenzione: pur lasciando qualche perplessità (ad esempio non c’è un solo psicologo interpellato su questo tema), affronta forse per la prima volta un altro tema di cui sentiremo molto discutere nel mondo di chat-bot e intelligenza artificiale che si attende, cioè fino a quale grado di pervasività possono arrivare gli algoritmi nella conduzione stessa delle nostre scelte, non solo – come diamo per scontato – nel tempo libero, ma anche in quello del lavoro. Nel caso di questi strumenti, essi consentono a Uber di raggiungere uno scopo preciso e complesso: trasportare al minimo costo possibile i clienti, dove e quando vogliono, tenendo per sé la gestione dell’equilibrio tra domanda e offerta, nonostante spetterebbe più al driver.
How Uber uses psychological tricks to push its drivers’ buttons: https://t.co/MFssOd4OjZ pic.twitter.com/GMHSDW2nDy
— NYT Graphics (@nytgraphics) April 3, 2017
Che Uber utilizzasse gli algoritmi per gestire il comportamento dei piloti era noto da tempo, ma il quotidiano americano ha il merito di aver spiegato in dettaglio cosa usa e come per indurre i conducenti a lavorare di più e duramente senza sborsare un dollaro, ma puntando tutto su trucchi psicologici. In che modo? L’articolo è pieno di esempi: modificare arbitrariamente le notifiche quando ci si allontana da un obiettivo appetibile e il driver intende disconnettersi, offrire diversi tipi di interazioni e attrazioni sullo smartphone, creare piccoli premi di nessun valore economico, persino inventare personaggi femminili da usare come esche per un “pubblico” prettamente maschile. Ovviamente i trucchi sono anche molto più sofisticati, algoritmici.
Il tema di fondo è quello della trasparenza degli algoritmi, al solito, già denunciata da Tim Berners-Lee. Più concretamente e in superficie, come fa notare l’autore dell’articolo, Noam Chaber, questo non sarebbe possibile in un ambiente di lavoro regolare; dato però che i driver di queste società non sono dipendenti, Uber può sempre sostenere che possono semplicemente smettere di lavorare quando vogliono, quando ad esempio sentono troppa pressione dal loro smartphone. Più facile a dirsi che a farsi.
Tuttavia, anche da questo punto di vista è probabile che lo stato delle cose possa cambiare, per due fattori concomitanti: la sensibilità sulla gig economy sviluppata in California, e il clima politico instaurato dall’amministrazione Trump, apertamente ostile verso tutto quanto va a detrimento del lavoro a paga base, bacino elettorale di queste ultime elezioni. D’altra parte, non c’è quasi settimana in cui le pratiche manageriali non vengano messe all’indice dall’opinione pubblica e dai media: dalla gaffe dell’amministratore delegato, Travis Kalanick, ai problemi come l’accusa di discriminazione o quella di avere rubato segreti commerciali di un concorrente. Tutte ragioni plausibili per l’abbandono del presidente dopo pochi mesi. Gli algoritmi alla “tempi moderni 2.0” vanno ad aggiungersi all’elenco.