Cosa sta succedendo in Turchia? Poche ore dopo l’annuncio del premier Erdogan di voler bloccare Twitter il numero di messaggi è aumentato, l’hashtag #TwitterisBlockedinTurkey è trend topic in tutto il mondo, ambasciate e persino il presidente della repubblica, Abdullah Gül, twittano liberamente. La sfida tra la popolazione turca e il controverso politico è per ora vinta dai primi, anche sul social.
Ma se ci sono tutti questi tweet, di cosa stiamo parlando? Molti cominciano a chiederselo, visto che solo poche ore dopo che il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan aveva annunciato la sua intenzione di «spazzare via» il sito di microblogging, sono stati inviati oltre mezzo milione di tweet. Stando ai rapporti delle società di analisi statistiche, il flusso di contenuti social in quel paese è ancora di circa 1,8 milioni al giorno. Nessun arresto, e un rallentamento appena percepibile. Per quale ragione?
The best #TwitterisblockedinTurkey image http://t.co/SqCCMbTYNM pic.twitter.com/3GaYxJqB5P
— Joe Weisenthal (@TheStalwart) March 21, 2014
La conoscenza dei metodi alternativi
Forse la questione turca passerà alla storia come la dimostrazione tecnica che più il web penetra in una società, più è arduo pensare di inibirlo. Teoria che andrebbe studiata a fondo, naturalmente, ma che può partire dalla semplice osservazione delle differenti reazioni a questi blocchi in paesi come Iran, Libia, Siria, dove i social sono effettivamente bloccati, mentre in Turchia si trovano già meme sugli Open – DNS dipinti persino sui muri e appesi alle finestre. Conoscenza, ecco la differenza. Una maggiore conoscenza dei metodi alternativi, DNS, proxy, PVP, che si diffonde tra la popolazione insieme ai prodotti stessi della Rete.
L’imbarazzo e i tweet presidenziali
Secondo alcuni commentatori, quella di Erdogan – impegnato in questa battaglia contro Twitter solo ed esclusivamente perché su questo social girano da alcuni giorni dei file audio di una conversazione tra lui e il figlio che alimenta forti sospetti di corruzione – è una memorabile figuraccia tecno-politica, ma soprattutto, vedendola al contrario, in Turchia si sta dimostrando, come successo in Italia con il sequestro dei siti pirata, che il blocco dei DNS e tecniche simili sono facilmente aggirabili.
https://twitter.com/TheBlogPirate/status/446907456825085954
La questione sta assumendo anche toni grotteschi dal momento che il presidente Abdullah Gül, comicamente ignaro – ma non si capisce come – delle conseguenze sta twittando il suo parere sul blocco (a questo punto, quale?) criticando apertamente l’operazione governativa e sottolineando, come nel tweet pubblicato pochi minuti fa, un aspetto che ricorda molto i dibattiti sentiti anche in Italia:
Qualora sia violata la segretezza della vita privata delle persone, se ci sono questioni penali, si possono disattivare gli account, ma solo dopo la decisione di un giudice.
Kişilerin özel hayatının gizliliğini ihlal gibi suç oluşturan hususlar varsa, ancak mahkeme kararıyla sadece ilgili sayfalar kapatılabilir.
— Abdullah Gül (@cbabdullahgul) March 21, 2014
Vince il social, per ora
Difficile fare previsioni sulle prossime ore, i prossimi giorni. Mancano nove giorni al voto e il premier turco ha platealmente scelto la forza contro chi che ritiene essere i suoi oppositori interni ed esterni. Tuttavia, l’incredibile facilità con la quale il popolo turco sta reagendo al blocco, aggirandolo sia per risorse proprie che grazie all’aiuto del resto del mondo, è sotto gli occhi di tutti. Probabilmente si può affermare che il bicchiere è mezzo pieno: i social hanno vinto. Tuttavia c’è anche l’aspetto più inquietante: la vicenda turca potrebbe insegnare ad altri paesi che per bloccare la Rete è necessario intervenire più drasticamente, anche dal punto di vista tecnico. Una parola sola: cavi.