«La Rai, Radio televisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive»: era il 3 gennaio del 1954 quando un’emozionata Fulvia Colombo, sorridente e per nulla impacciata, diede vita alla primissima trasmissione televisiva italiana. 60 anni oggi per un mezzo, quello della TV, che giunta la terza età è pronta alla più drastica delle rivoluzioni. Nell’era digitale della Rete, come sopravviverà la televisione? Perirà sotto i colpi incrociati dei byte e dei contenuti user-generated?
La storia dell’Italia del ‘900 è legata a doppia mandata all’evoluzione della Rai, la Radio Televisione Italiana. Prima della TV la radio – che proprio quest’anno compie 90 anni – ha contribuito allo sviluppo del paese: iconici i radiogiornali durante la Seconda Guerra Mondiale, accompagnati al cinema dai notiziari dell’Istituto Luce. Ma fu 9 anni dopo il conflitto che la società tricolore si apprestava, del tutto inconsapevolmente, al più grande dei suoi scossoni. Sì, perché la TV in Italia ha unificato più della stessa politica, ha appianato le differenze tra Nord e Sud, ha aiutato gli italiani a sentirsi parte di un unico popolo – e non solo durante i Mondiali di Calcio – insegnando loro la lingua. La prima funzione della TV è stata infatti proprio quella educativa, con le lezioni di grammatica mandate in onda per diversi anni.
Poi è stato il turno dell’intrattenimento. Prima il Festival di Sanremo finalmente accessibile a tutti, poi l’era del Lascia O Raddoppia e del Rischiatutto di Mike Bongiorno: anche i nativi digitali si saranno imbattuti nelle immagini d’epoca di orde di telespettatori riunite al bar o dalla vicina di casa, pur di seguire il quiz dei quiz. O forse saranno inciampati nella gaffe della Signora Longari, “caduta sull’uccello”, un cult della Rai degli anni ’70. Ma anche Carosello, con cui si segnava l’orario della nanna per i più piccoli, la Corrida di Corrado, Fantastico, le indimenticabili esibizioni di Mina, i balletti di Raffaella Carrà e la professionalità quasi austera di Pippo Baudo. La Rai è stata sinonimo di sperimentazione fino alla fine degli anni ’70, con l’accensione del secondo canale – a colori, finalmente – e l’arrivo della concorrenza delle TV private.
La prima vera sfida incontrata dalla TV di Stato è stato proprio il confronto con le varie emittenti private, spuntate come funghi nei primissimi anni ’80. E la nascita del secondo polo – quello di Canale 5, Rete 4 e Italia 1 – ne ha cambiato l’essenza, portando alla ribalta dei concetti prima sconosciuti: quello di share e quello di advertising. I programmi andavano prima venduti e poi visti, la gara era all’ultima sintonizzazione. Un confronto che, almeno in un primo tempo, ha portato a un certo giovamento delle programmazioni, tra sfide all’ultima spaccata tra Heather Parisi e Lorella Cuccarini. Un idillio durato poco, perché i successivi anni ’90 non han perdonato nessuno.
L’ultimo decennio del ‘900 è quello che ha segnato per la TV l’inizio del declino. Il consumatore si è fatto sempre più settoriale – grazie anche all’arrivo sullo Stivale delle prime pay TV, Tele+ e Stream fra tutte – e l’invasione di prodotti esteri ha reso opaco e spento lo smalto delle produzioni autoctone. Gli anni ’90 sono quelli dei video musicali, dei teen-drama, dei telefilm a ogni ora del giorno. Sono quelli delle contestazioni, della TV tacciata di essere la causa di tutti i mali, della successiva desertificazione culturale di cui la televisione, con il senno di poi, è stata piuttosto un riflesso che la radice. Un Caronte polemico che ha traghettato i palinsesti verso l’ennesimo rito di passaggio, quello del reality e del talent: Grande Fratello, Survivor, L’Isola dei Famosi, La Fattoria, La Talpa, Amici e X-Factor. La TV si è riscoperta spiona, un po’ maliziosa, pronta a invadere le vite di noti e meno noti per il gusto pruriginoso – ma sempre appagante – di sbirciare negli affari altrui.
Oggi la TV è pronta all’ennesima muta. A vincere è il factual entertainment, quei programmi dal consumo veloce che si propongono di raccontare uno scorcio di persone ed eventi, senza troppi giudizi di sorta. È quel che fanno normalmente due dei canali oggi più gettonati – Real Time e DMax – con i loro show confezionati attorno allo spettatore. La TV, complice anche il digitale terrestre, si moltiplica e diventa settoriale. La sua evoluzione è però tutto fuorché completa, perché sarà infatti la Rete a stravolgere la televisione così come oggi la si è conosciuta. Gli spettatori non vogliono più subire i palinsesti, li vogliono creare. E non vogliono più attendere la concessione della grazia di un’emittente per assistere al loro programma preferito, lo vogliono “qui ed ora” e possibilmente in contemporanea con gli States. La TV del futuro non sarà Rai, Mediaset o La 7. La TV del futuro si chiama Netflix, River, Infinity. Si chiama streaming, on-demand, mobile, user-generated. E le sue possibilità di sopravvivenza dipenderanno da una sola parola: lungimiranza, quella degli editori.
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