Ora che le polveri si stanno depositando sul campo di battaglia è il momento della riflessione: Uber ha perso, i tassisti vinto, ma su quali argomenti? Cosa dice l’ordinanza del tribunale di Milano che riconosce che UberPop pratica una concorrenza sleale? E cosa potrebbe fare Uber per riaprire il suo servizio? Il testo è molto interessante perché ripercorre tutte le tesi di questi anni e stabilisce una inibizione cautelare che non significa che Uber sia illegale. Dipende da cosa farà da oggi in poi.
La notizia della sospensione ha certamente lasciato di stucco i sostenitori di questa azienda e del suo servizio, ma in realtà negli ambienti giornalistici e giuridici era considerata prevedibile. Per almeno due ragioni. La prima è “politica”, cioè era difficile pensare che il collegio dei giudici avrebbe fatto cadere il frutto così lontano dall’albero della cautelare vinta dai ricorrenti. La seconda è più tecnica: per quanto discutibili talvolta i metodi di chi si sente colpito negli interessi, l’argomento della concorrenza sleale aveva già fatto breccia in qualche argomentazione giuridica e la cautelare è stata l’occasione di un definitivo regolamento di conti.
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— IoStoConUber (@IoStoConUber) July 10, 2015
Cosa dice l’ordinanza
L’ordinanza (pdf) scritta dai tre giudici del collegio, presieduto da Marina Anna Tavassi, è un documento complesso, 28 pagine ben argomentate nelle quali si notano due parti: la prima dove si smonta la tesi di Uber secondo la quale il suo servizio è un marketplace dove si incontrano auto e persone bisognose di un passaggio mentre la società pratica una semplice fee; la seconda inizia dal concetto per cui si tratta di un servizio simile al radiotaxi e arriva alla conclusione che Uber pratica una concorrenza sleale perché al contrario dei ricorrenti non deve sottostare a una lunga e costosa trafila di regole di garanzia.
Da un lato l’autodefinizione di Uber:
Una applicazione informatica idonea a favorire forme di trasporto condiviso, realizzate direttamente dagli utenti, espressione della nuova concezione di utilizzazione dell’autovettura in maniera condivisa, al fine di abbattere i costi di impiego dell’auto privata e di ridurre l’inquinamento.
E le sue argomentazioni:
- Uber Pop è un servizio diverso da quello assolto dai taxi, costituendo una piattaforma tecnologica;
- In ogni caso tale servizio non può dirsi in concorrenza rispetto ai taxi;
- A torto il primo giudice ha ritenuto che Uber benefici di risparmi di costi,
- Manca comunque la prova che ci sia stata una diminuzione della domanda di servizio taxi a causa dell’ingresso sul mercato di Uber.
Dall’altro, la conclusione del collegio:
Si tratta di un’app che a detta della stessa parte reclamante vale a mettere in contatto la domanda e l’offerta del servizio di trasporto, effettivamente equiparabile, ancorché realizzata con modalità più moderne, al tradizionale servizio di radiotaxi. A nulla rileva ai fini che qui interessano che il servizio di radiotaxi sia svolto tramite risorse umane, mentre quello di Uber non impieghi simili risorse.
Anche sulla formazione del prezzo, che è parte della negoziazione di un servizio peer-to-peer, si evidenziano caratteristiche che cozzano con il contratto tra Uber e i suoi driver:
Il riferimento al prezzo della corsa quale effetto dell’incrocio fra domanda e offerta rappresenta un concetto di natura esclusivamente economica, che nulla a che fare con il baratto, richiamato dalle associazioni, o con altre forme di sharing economy. Ove ci sia un prezzo e questo si ponga come variabile a seconda dell’incontro fra domanda e offerta si è in presenza di un mercato concorrenziale.
Insomma, per il tribunale UberPop è un servizio assimilabile al radiotaxi e in concorrenza. Ma perché è sleale, affermato il rapporto di concorrenza tra tassisti e driver? L’ordinanza spiega anche questo, e qui è difficile commentarlo perché la logica comune considera il “vuoto” legislativo in cui opera, sostanzialmente, Uber, una specie di passpartout, ma il ricorso dei tassisti chiede una cosa precisa, non la legalità bensì la qualità della concorrenza.
Laddove l’omesso rispetto della normativa di settore (la legge 21/92, nda) consenta al competitor di realizzare risparmi di costo e di semplificare in maniera sostanziale la propria attività organizzativa e di vigilanza – proprio in conseguenza della mancata ottemperanza ai vari adempimenti previsti dalla legge a carico di coloro che invece siano tenuti e ritengano di doversi conformare a tale normativa – in tal caso il comportamento debba essere sanzionato come atto di concorrenza sleale sul mercato, in presenza dell’ulteriore requisito dell’idoneità a danneggiare l’altrui azienda.
Per i giudici di Milano Uber non pratica concorrenza sleale perché costa meno o e più efficiente, ma solo perché non dovendo sottostare ai maggiori oneri derivanti da assicurazione, test, verifiche e altri regolamenti imposti agli altri di fatto diventa un asset puramente remunerativo.
I suggerimenti finali
La parte finale dell’ordinanza è ancora più interessante. Perché la libera concorrenza si svolga ad armi pari senza spuntare quelle dell’economia legata al web, si suggerisce ad Uber di assolvere a tutte le ipotesi fatte in via di dibattito, riprese dall’autorità dei trasporti e da altri enti. Qui si scopre che Uber si era detta disposta a consentire le 15 ore settimanali complessive ai driver di UberPop, ma il collegio non l’ha ritenuto sufficiente, perché mancano la copertura assicurativa aggiuntiva per la copertura dei danni al trasportato e l’obbligo di fissare i corrispettivi in modo chiaro e trasparente e di effettuare verifiche periodiche su autisti ed autovetture.
È evidente che se Uber accogliesse tutti questi suggerimenti il suo stesso modello economico andrebbe completamente rivisto e forse cadrebbe anche il suo guadagno. Per questo ha cercato un compromesso, senza però riuscire a convincere i giudici. Così l’ordinanza non fa altro che fotografare una situazione attuale, senza pretendere di stabilire cosa è lecito e cosa non lo è, ma preferendo per via cautelare sospendere questo servizio per non danneggiare un’altra impresa economica.
Ora la questione passa alla politica. Una eventuale riforma della legge sui trasporti nel senso prospettato anche nell’ordinanza consentirebbe a Uber di tornare a lavorare sul territorio. Oppure la stessa Uber potrebbe volontariamente adeguarsi, ma avrebbe costi enormi e inoltre è impossibile senza una decisione dalla California.