Non è un compito semplice quello ereditato dal nuovo CEO Dara Khosrowshahi. Uber continua ad essere al centro di accese discussioni riguardanti presunte violazioni di proprietà intellettuali, pratiche di concorrenza sleale e attività dannose per la privacy degli utenti. Oggi l’ennesima tegola: si parla di un sistema messo in atto, secondo alcuni, con l’obiettivo di ostacolare le indagini delle autorità.
Noto internamente con il nome in codice Ripley (un richiamo alla filmografia di Alien), il programma consentirebbe a un team di disattivare da remoto l’accesso alle informazioni nel caso di sopralluogo da parte delle forze di polizia. Stando alla fonte della notizia sarebbe stato impiegato oltre venti volte tra la primavera 2015 e la fine del 2016, in occasione di raid effettuati in Canada, in Belgio, a Hong Kong e in altre location a livello globale, tutti risolti in un nulla di fatto per gli investigatori.
Non appena negli uffici si palesano gli agenti, un responsabile compone un numero e, dal quartier generale di San Francisco, personale appositamente addestrato rende impossibile ottenere i dati contenuti nei computer e nei dispositivi mobile esaminati, mediante un’istantanea modifica delle credenziali per il login. Questa la dichiarazione di un portavoce Uber affidata alle pagine di Bloomberg.
Come ogni gruppo con uffici in tutto il mondo abbiamo procedure di sicurezza operative per proteggere le informazioni legate all’azienda e ai clienti. Quando si tratta di indagini governative la nostra policy prevede la cooperazione con tutte le ricerche e richieste valide relative ai dati.
Legittima tutela di informazioni riservate o strumento pensato per costituire un intralcio alle indagini? Il confine tra l’una e l’altra cosa è sottile. Si parla anche di un software sviluppato internamente a partire dal 2016, chiamato uLocker: il programma, che pare non essere mai stato effettivamente impiegato, mostrerebbe una schermata di login fasulla nel caso di visita da parte delle autorità.