A poche ore dal decimo compleanno di iTunes, il progetto che ha reso l’acquisto di brani digitali un fenomeno di massa, le major discografiche si trovano al centro dell’attenzione dei media. Non si tratta, però, dei festeggiamenti per il negozio di Cupertino, bensì di una possibile truffa ai danni dei consumatori. A quanto emerge da una recente causa portata di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti, Sony, Vivendi, Warner Music e EMI avrebbero creato un cartello digitale affinché i prezzi delle canzoni rimanessero irragionevolmente alti.
La questione è stata sollevata nel lontano 2001 a seguito delle possibili attività illecite di MusicNet e PressPlay, due servizi di distribuzione online controllati dalle major dell’intrattenimento. Con costi prossimi ai 240 dollari di abbonamento annuale, a cui si aggiungono gravi limitazioni come l’impossibilità di trasferire i file su riproduttori portatili, i quattro big della musica sembra si siano accordati in modo da ottenere un vantaggio competitivo sul mercato. Prezzi stabiliti a priori, e non determinati dal normale andamento di domanda e offerta, ed esclusione dei competitor dall’ampio margine della distribuzione: queste le principali accuse mosse contro le case discografiche coinvolte nel procedimento legale Sony Music Entertainment VS Kevin Starr.
Le attività di cartello avrebbero imposto un prezzo wholesale, quindi destinato ai rivenditori, di 70 centesimi a brano, nonostante il reale valore di mercato fosse decisamente più basso. A questo obolo, inoltre, vanno aggiunti i rincari sul consumatore finale: ecco affiorare i famosi 99 centesimi che, ormai da tempo, sono lo standard universale per l’acquisto di musica in rete.
La causa, precedentemente rigettata nel 2008 ma rinvigorita in appello in tempi recenti, ha visto la forte opposizione delle quattro case discografiche implicate, che ne hanno chiesta la chiusura per infondatezza. Secondo i rappresentanti legali delle major, non vi sarebbero sufficienti prove per stabilire eventuali attività illecite che, di conseguenza, si configurerebbero come mere illazioni dei denuncianti. La legge federale statunitense, così come sostenuto, richiederebbe una maggiore specificità d’accusa per consentire un eventuale avvio delle attività di antitrust.
La Corte Suprema, chiamata ad esprimersi sulla legittimità del procedimento legale, non l’ha tuttavia pensata allo stesso modo. Secondo il massimo organo giudicante statunitense, gli eventi descritti sono più che sufficienti per stabilire la fondatezza della causa che, di conseguenza, vedrà certamente un suo epilogo in tribunale. Determinanti sono state due precedenti sentenze emesse dalla stessa corte che, così come accade nei sistemi di common law, sono vincolanti per gli organi giudicanti. Nel caso di concorrenza sleale che ha visto protagonista l’operatore Verizon nel 2007 e in una vicenda in cui le autorità furono accusate nel 2009 di lesioni a danno di un pakistano, la Corte Suprema ha sancito l’ammissibilità dell’azione legale nonostante gli elementi raccolti fossero addirittura meno pressanti di quelli emersi contro i big dell’intrattenimento. Il prossimo passo, perciò, saranno le attività di indagine, mentre per la prima udienza vera e propria bisognerà attendere il termine del 2011.