«Tre miti sulla legge sul copyright e dove cominciare a risolvere il problema». Si intitola così, un po’ alla Woody Allen d’annata, il report del Republican Study Committee – un gruppo di 165 membri del Congresso specialisti di studi politici – che ha destato scalpore e in men che non si dica è stato subito rimesso nel cassetto. Il motivo? Non si erano mai sentite parole così laicamente favorevoli a una visione aperta della proprietà intellettuale sul Web, almeno da parte dei politici. Forse che quando sono liberi di pensare senza pressioni delle lobbies, a Washington vorrebbero lasciarsi la SOPA alle spalle?
Il caso è clamoroso. Il documento, pubblicato dalla Electronic Frontier Fundation, smonta dieci anni di tradizionale allineamento del Congresso ai progetti legislativi di protezione dei contenuti dei signori di Hollywood (film, musica, broadcast), ma la gioia per gli attivisti è durata appena 24 ore: un portavoce l’ha poi ritirato sostenendo che fosse una versione «ancora non revisionata». Difficile pensare che una semplice revisione possa sovvertirne i cardini, tuttavia al momento il documento risulta indisponibile a titolo ufficiale.
Difficile inoltre credere non sia partita qualche telefonata dai grandi stakeholders del settore, ma quali erano gli elementi così disturbanti? Il primo, forse quello più intellettualmente stimolante: gli studiosi del gruppo contestano il suggerimento, imposto dai piani alti, che il copyright sia uno strumento di tutela dei diritti dei detentori e solo in subordine degli utenti, perché considerano preminente la parte della Costituzione americana dove si parla di «promuovere il progresso della scienza e delle arti utili».
Da questo elemento, la relazione passa in rassegna SOPA e altri consimili, rilevando grosse falle, vere crepe nelle attuali disposizioni sui diritti dei contenuti, che non rispetterebbero i casi di consumo culturale ad uso non commerciale. Lo studio, inoltre, esprime pareri molto pesanti in merito agli effetti negativi del diritto d’autore in materia di archiviazione e accesso alla conoscenza. Questi problemi sono stati documentati ampiamente citando gli studi che hanno notato il ridotto numero di libri disponibili a partire dal 20° secolo.
Il dibattito, insomma, viene riportato sul doppio binario degli aspetti sociali, di quelli della conoscenza – un po’ come l’europea Neelie Kroes, che considera la revisione del concetto di copyright come una necessità – e anche del buon senso.
I tre miti di cui si parla sono il mito storico, secondo il quale il copyright è stato creato per difendere la proprietà intellettuale; il mito del mercato, che pretende di depositare contenuti che sono un bene collettivo; infine il mito degli incentivi, per il quale il diritto d’autore porta innovazione e produttività, quando invece – e il documento cita molti esempi – risulta spesso protezionista.
Il commento della EFF non potrebbe essere più esplicito:
Il senso comune è stato purtroppo assente nei dibattiti sul diritto d’autore. Vediamo spesso affidare progetti sui contenuti del settore con metodi discutibili, intenti a mostrare centinaia di migliaia di posti di lavoro e miliardi di dollari presumibilmente persi per la pirateria.
Il caso del RSC è una piccola falla, subito riparata, ma la sensazione è che il gioco di contro-informazione delle lobby sia stato smascherato. D’altra parte, sul copyright la questione è semplice da intuire: la tecnica è quella di escludere eventuali attori della partita, come ad esempio l’ACTA, oppure includerli dentro una logica dei sei strike. Ma restando nella metafora sportiva, la sensazione è che in questo campo, tra scelte politiche e interessi, siano di moda le combine. Solo che c’è sempre qualcuno che invece non ci sta.