Dice la storia che i dinosauri non si siano estinti perché attaccati da qualche nuova specie più forte e più insidiosa, ma perché non sono stati in grado di adattarsi al mutato clima.
La cronaca delle ultime ore sembra l’eco dei dinosauri, quando il rantolo era ormai remoto ed era chiaro il destino che avrebbero compiuto. L’urlo dei dinosauri inizia a firma di Giampaolo Pansa, importante esponente del giornalismo italiano ed apprezzato saggista. La sua carriera si è snocciolata in mezzo secolo di quotidiani: da La Stampa a Il Giorno, passando per il Messaggero, il Corriere della Sera, Libero e La Repubblica. Ed è un po’ per ironia e dispetto che si ammette di aver preso tali informazioni da Wikipedia.
L’urlo di Pansa è contro Internet, definito con disprezzo come un “vizio”:
Mi rendo conto che la mia è una predica inutile. È sufficiente navigare su Internet, un vizio che non ho mai praticato, per rendersi conto che sto passeggiando sulle nuvole. In rete non esistono soltanto i propagandisti di odio, come ha fatto bene a ricordare Giorgio Napolitano. C’è assai di peggio: il web ci consegna l’autoritratto di un’Italia che si comporta come Pinocchio. Era convinta di aver trovato il Paese dei balocchi. Ma adesso scopre di vivere in una società malata di Alzheimer, che ha perso la memoria di se stessa e della propria dignità
Con altrettanta ironia ed altrettanto disprezzo, se in molti hanno letto queste righe non è grazie alla tiratura del giornale che le ha pubblicate, quanto per un tweet che ha propagato le parole di Pansa di retweet in retweet, di url in url, moltiplicandone l’effetto. Internet come un vizio, come il peggiore dei vizi, peraltro descritto tale anche se il firmatario dichiara da sé di non utilizzare tale strumento: lo critica, lo affonda, ma non lo utilizza e, pertanto, non lo conosce. Il che riversa altrettanta ironia ed altrettanto disprezzo sull’essenza stessa di uno scritto che si presenta pretenziosamente per propria natura come giornalistico.
Peccato, perché la firma è importante e per molti versi valida. Ma quando il tempo scorre senza che si facciano i conti con il modo in cui piega le realtà, il rischio è di cadere in una visione distorta che solo l’autorevolezza del proprio brand personale autorizza in qualche modo ad una pubblicazione (peraltro su carta stampata, altra istituzione in declino che tanto fascino conserva ancora in taluni ambienti). La critica di queste righe non vada dunque all’autore, il cui pensiero affonda le radici in una storia precisa ed ha pertanto dignità a sé, ma al concetto espresso: zoppo, inconsistente, superficiale e rozzo. Nonché, in definitiva, sbagliato.
Ma l’urlo del dinosauro non è isolato. Grazie a quanto pubblicato da Franco Abruzzo, è possibile apprendere della lettera inviata dal CdR del Corriere della Sera al direttore Ferruccio De Bortoli. La lettera contesta la presenza sulla homepage di Corriere.it di un link ad un sito esterno (Linkiesta.it): l’atto viene considerato come dissacrante e strategicamente sbagliato ed è con “stupore” che il CdR si scaglia contro una scelta di questo tipo.
Caro direttore, abbiamo visto con stupore che il nostro sito online ospita addirittura un link a un altro sito. Ci sembra una iniziativa incomprensibile, specie in un momento in cui stiamo discutendo, con tutte le difficoltà che conosci, su come rendere più redditizio il nostro di sito. Ti chiediamo, dunque, di interrompere quest’operazione che ha disorientato la redazione e che per altro è stata assunta senza neanche informare il Cdr, come invece è previsto dal Contratto. In caso contrario non riusciamo proprio a capire di che cosa dovremmo continuare a discutere. Un caro saluto
«[…] il nostro sito online ospita addirittura un link a un altro sito»: se le parole hanno un peso, una frase di questo tipo non può che essere emblematica di quanta sofferenza deve attanagliare il giornalismo italiano. Ma è una sofferenza che non viene inferta da nessuno e della quale nessuno è in realtà responsabile. Semplicemente, la storia insegna che «i dinosauri non si siano estinti perché attaccati da qualche nuova specie più forte e più insidiosa, ma perché non sono stati in grado di adattarsi al mutato clima».