Il giudice Denny Chin ha sentenziato: l’accordo proposto da Google agli editori non potrà aver luogo poiché «non giusto, non adeguato e non ragionevole». È questa una decisione di enorme portata per il mondo dell’editoria e per il mercato degli e-book poiché vieta a Google di proseguire sulla propria strada, apre alla concorrenza maggiori opportunità e, pur sacrificando importanti effetti positivi di breve periodo, prepara un percorso che nel lungo periodo potrà creare i presupposti per trasferire davvero tutto il sapere del mondo cartaceo in una dimensione digitale in modo equo e duraturo.
Dopo aver iniziato la propria opera di scannerizzazione nel contesto del progetto Google Books, infatti, Google si è trovato a fare i conti con le opere “orfane”, delle quali non era possibile risalire al legittimo titolare del copyright. Trattasi di una quota importante del complesso delle opere digitalizzate, ma soprattutto una quota in grado di fare la differenza nel contesto di una guerra di mercato pronta a scoppiare. Erano infatti quelli gli anni in cui si iniziava a palesare la possibilità di iniziare davvero la corsa agli e-book ed agli e-reader, ed Amazon si schierò immediatamente contro Google chiedendo che quest’ultima non potesse avere in gestione opere delle quali non sarebbe stato possibile contattare qualcuno per poter contrattare una licenza di pubblicazione.
Google da parte sua propose al mondo dell’editoria, da cui ricevette una class action che si metteva di traverso sui progetti di Mountain View, un accordo che avrebbe portato vantaggi ai singoli autori, accordo che prevedeva una vera e propria partnership con Google che avrebbe ridato vita anche ai libri da tempo fuori pubblicazione. Il giudice Denny Chin del resto lo ammette anche nella sua sentenza finale: approvare il documento avrebbe effettivamente portato grandi vantaggi per la cultura, esplodendo il valore dei volumi digitalizzati e portando un incredibile numero di informazioni tra le mani di nuova utenza. Tutto ciò, però, deve accadere sulla base del rispetto delle regole del mercato e l’accordo proposto da Google, stabilisce la sentenza, offre in realtà al gruppo una posizione di eccessivo controllo.
La logica delle contestazioni è di per sé semplice: con l’accordo proposto Google avrebbe voluto far proprio il diritto sui libri “orfani”, aggirando così il bisogno di autorizzazione da parte dei legittimi titolari del copyright (pur se non reperibili). Così facendo si apporta un innegabile vantaggio al sapere condiviso, ma al tempo stesso Google farebbe propria una fetta di mercato su cui altri gruppi non avrebbero invece titolo ad accedere. L’accordo, insomma, andrebbe ad aggirare le norme sul copyright regalando a Google il diritto esclusivo d’azione su titoli che la concorrenza non può invece gestire. La sentenza ferma questo sistema e, soprattutto, respinge un principio che avrebbe cambiato le carte in tavola in modo sostanziale.
La class action, insomma, può proseguire poiché l’accordo proposto da Google non ha ragione di essere accettato. Il giudice Chin lascia però un piccolo spiraglio aperto: la decisione avrebbe potuto essere differente se, invece di una logica di “opt-out”, l’accordo fosse basato su una logica di “opt-in“. Se dunque la scelta non è forzata ma chiaramente volontaria, il giudice non avrebbe nulla da obiettare.
Google ha immediatamente espresso il proprio disappunto per la sentenza ed ha preso tempo per valutare il da farsi sulla base di quanto indicato dal giudice Chin. «Come molti altri, noi crediamo che questo accordo avrebbe il potenziale di aprire l’accesso a milioni di libri che sono oggi difficili da trovare negli Stati Uniti».
A sedere dalla parte dei vincitori sono tutti coloro i quali a suo tempo si sono schierati non solo contro la proposta di Google, ma anche contro la possibilità stessa per cui il giudice si fosse espresso poiché una decisione avrebbe in qualche modo scritto un nuovo modo di intendere il copyright. Tra i principali oppositori alla “Amended Settlement Agreement” figuravano tra gli altri l’Associazione Italiana Editori, l’Open Book Alliance, Internet Archives, Consumer Watchdog, l’Electronic Frontier Foundation, Microsoft ed Amazon.