È un faccia a faccia con origini lontane quello tra Facebook e Power Ventures. Se per il social network di Mark Zuckerberg non servono presentazioni, è invece meglio precisare l’attività dell’altro soggetto in questione. La società, nel novembre 2008, lanciò il servizio Power.com, con l’intenzione di offrire agli utenti uno strumento centralizzato per l’aggregazione dei dati provenienti dai più disparati social network. Tra questi, ovviamente, presenziava anche Facebook. Per l’interazione con il sito, agli iscritti veniva chiesto di fornire le proprie credenziali di accesso ai diversi servizi così da poter mostrare attraverso una sola interfaccia semplificata, lo stream di informazioni in entrata dalle fonti più disparate (tra gli altri anche Twitter, Digg, Flickr, LinkedIn, Orkut) e aggiornare lo stato dei differenti account con un solo click.
Facebook si era fin da subito dimostrata poco favorevole a una pratica di questo genere, invitando i gestori di Power.com ad optare per l’adozione delle API pubbliche e della piattaforma Facebook Connect per l’interazione con il database contenente le informazioni dei suoi utenti. La risposta fu negativa, portando così all’avvio di una causa legale che ha visto dapprima Power Ventures sul banco degli imputati, con l’accusa di aver violato di termini di servizio di Facebook (tra i quali viene specificata a chiare lettere l’impossibilità a prelevare informazioni attraverso sistemi automatizzati) e poi su quello dell’accusa, puntando il dito contro presunte pratiche monopolistiche del social network.
La vicenda è giunta ieri a conclusione, con una sentenza che potrebbe rappresentare un precedente interessante e, al tempo stesso, destinato a far discutere. Il giudice, si legge nel documento allegato in calce, respinge le richieste avanzate da Power.com, non riconoscendo alcuna pratica illegale o di tipo monopolistico e anticoncorrenziale nel comportamento tenuto da Facebook, sottolineando però altresì come la violazione dei termini di servizio specificati in un sito Web non possa configurarsi come reato (un sito web, insomma, non può dettar legge). Se così fosse, infatti, si rischierebbe di dar vita a una situazione che vedrebbe i gestori di siti e portali avere troppo potere nei confronti dell’attività degli utenti.
Al tempo stesso, il tentativo di eludere eventuali misure tecniche di protezione introdotte con la finalità di impedire proprio la violazione dei TOS, potrebbe costituire una violazione della legge californiana. Una considerazione, questa, che prende spunto dal fatto che Power.com aveva aggirato il blocco IP messo in campo da Facebook, semplicemente cambiando i suoi protocolli di rete. Secondo EFF, stando a quanto si legge nel commento alla conclusione della vicenda comparso sul sito ufficiale della fondazione, se la prima parte della sentenza (quella relativa ai TOS) può essere interpretata come una sorta di vittoria, la seconda potrebbe invece dar vita a un pericoloso precedente, che consentirebbe di punire tutti coloro che adottano mezzi per bypassare misure di blocco imposte con finalità non sempre condivisibili.