Poche parole per seppellire un intero caso: in giornata sono state pubblicate le motivazioni circa la sentenza che ha assolto i responsabili Google per il caso Vivi Down, ed il testo sembra non soltanto chiudere la questione, ma indica anche un indirizzo forte all’interpretazione giurisprudenziale del contesto in cui l’accusa è maturata.
«Non può essere ravvisata la possibilità effettiva e concreta di esercitare un pieno ed efficace controllo sulla massa dei video caricati da terzi, visto l’enorme afflusso di dati». La sentenza, insomma, sposa in tutto e per tutto il punto di vista portato avanti da Google fin dall’inizio della vicenda, quando l’accusa contestò al gruppo il mancato controllo preventivo sui video pubblicati su quel che ai tempi era Google Video (in seguito scomparso in favore di YouTube). Il video che scatenò la bufera ritraeva alcuni ragazzi schernire un compagno di classe disabile. L’accusa puntò il dito contro il gruppo di Mountain View ricordando tanto il numero dei click raccolto, quanto il ritardo nella rimozione del filmato, quanto ancora il lucro tratto dall’azienda grazie alle pubblicità contestuali. Una ad una, però, le accuse sono state smontate. Non senza difficoltà.
In primo grado per Google arrivarono tre condanne: David Carl Drummond, ex presidente del cda e legale di Google Italy; George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy; Peter Fleischer, responsabile policy Google sulla privacy per l’Europa. L’orientamento della Corte fu in quel caso del tutto contrario al punto di vista proposto da Google: la rete era stata descritta come una “prateria” e l’opera di Google come una sorta di istigazione a delinquere in virtù dell’assenza di controlli sulla propria repository video. La sentenza non poteva però reggere il peso del tempo e del ricorso in appello.
Il ribaltamento della sentenza è datato 21 dicembre 2012, quando per i tre dirigenti del gruppo è giunta l’attesa assoluzione. Le motivazioni chiariscono oggi la natura della decisione: un vuoto legislativo impedisce di identificare una violazione della privacy; il lucro non sussiste in quanto la pagina risultava scevra di annunci promozionali ed il servizio è per sua natura gratuito; il controllo preventivo delle immagini non è realisticamente ipotizzabile. L’approccio pragmatico alla questione affronta però un elemento ulteriore di grande importanza: un controllo preventivo non solo sarebbe impraticabile, ma delineerebbe anche un restringimento della libertà di espressione costringendo Google a rimuovere preventivamente, ed arbitrariamente, i contenuti caricati dall’utenza.
Le motivazioni della sentenza rappresentano pertanto un forte colpo di spugna su tutto il polverone sollevatosi attorno alla vicenda, facendo chiarezza sull’interpretazione della normativa e sul ruolo dei provider. D’ora in poi la distribuzione delle responsabilità sarà più chiara per l’intero comparto, con Google peraltro ora proattiva nell’identificazione più rapida dei contenuti pericolosi e nella loro eventuale rimozione.